Tanto odio e tanto amore – Carlo Scognamiglio
Di seguito la relazione dell’intervento del Prof. Carlo Scognamiglio alla “3a Giornata delle Testimonianze e della Memoria“, tenutasi a cura dell’Associazione Progetto Centola il 3 novembre 2013. E’ possibile anche scaricare la versione PDF per la stampa da questo link.
Tanto odio e tanto amore. I molti significati del 1943 nella storia d’Italia
Centola, 3 novembre 2013
Carlo Scognamiglio
Le ricorrenze sono importanti. Esse preservano certo qualcosa di estrinseco, di occasionale, ma non solo. Oggi rievochiamo l’anno 1943, e impulsivamente siamo indotti a domandarci: che cos’è, poi, un anno? Un tempo circoscritto, più o meno denso di accadimenti. Ma resta – nel pensarlo – l’arida sensazione secondo la quale evocare un lasso temporale costringa il ricordo a non spingersi indietro né avanti, oltrepassando i rigidi confini segnati dal primo e l’ultimo giorno. Però, a vederla meglio, con occhio cauto, l’evocazione commemorativa non vuol recare offesa all’oltre né all’altro, non ignora quel che è stato prima o dopo. Un’occasione, in sé, contiene anche l’intrinsecamente forte. In fondo, la nostra stessa vita è fatta di occasioni, talvolta colte, tal’altra mancate.
Quella di oggi dunque ci induce a riflettere su un momento della nostra storia che chiede a noi di formulare le domande giuste, di sottoporre al nostro sforzo ermeneutico quei molti significati che il passato ha consegnato al futuro. Un filosofo tedesco che amo molto, Nicolai Hartmann, ha scritto che la storia dell’umanità si costituisce in modo diverso dagli altri processi naturali. Nella storia il passato non è mai passato del tutto. Esso si protrae nel presente, agisce come forza presente, ed è tanto più difficile interrogarlo proprio per questa sua internità al nostro stesso domandare. Dopo l’ultima guerra i tedeschi hanno a lungo discusso di un passato che non vuole passare. Ma la verità è che nulla decade in modo definitivo, e ogni cosa può essere riportata in vita. Una commemorazione, come questa, non può aiutarci a congedarci per sempre da ciò che accadde settanta anni fa. Anzi, rammentare equivale a ridestare, a tener viva la vita. Non è reale ciò che può essere toccato con mano o visto con gli occhi. Reale è ciò che genera effetti. Il nostro passato, come cercherò di mostrare, è quanto mai vivente al nostro tempo.
Accennavo poco prima ai differenti campi semantici occupabili dai fatti del 1943. Per molti italiani quell’anno significa abbraccio sodale con nuovi alleati e adesione al modello atlantico. Per altri esso allude al tradimento, alla vergogna. Taluni vi leggono l’inizio della riscossa nazionale, altri la morte della patria. C’è chi ha trovato la vita, nel 1943. Molti ve l’hanno lasciata. Ma non fu un anno di svolta soltanto per noi italiani. La storia del mondo ricorda il 1943 come il momento che sancì la fine di un’epoca plurisecolare, segnando infatti, con la riscossa sovietica sul fronte orientale e l’occupazione alleata della Sicilia, l’evidente tracollo delle grandi potenze europee. La Francia era stata posta in ginocchio dalle forze dell’Asse, le quali tuttavia non riuscivano a reggere l’imponente convergenza di attacchi provenienti dall’azione congiunta di inglesi, americani e sovietici. Si andava così profilando la condizione di superamento dello Stato-nazione a vocazione imperiale, che a lungo aveva caratterizzato il colonialismo europeo, per definire un quadro geopolitico dominato da due superpotenze multietniche: USA e URSS. Questa trasformazione profonda è senz’altro il principale esito di quella fase di ribaltamento delle sorti militari del secondo conflitto mondiale. Più tardi, la scoperta drammatica della Shoah, e il trauma che ne conseguì, unitamente alla rivelazione delle molte atrocità commesse dai nazisti, sollecitarono la consapevolezza della necessità di riconoscere l’orizzonte dei diritti umani e della sorveglianza sovranazionale sulle dinamiche conflittuali del pianeta. Il trauma morale non fu corrisposto da un adeguato assestamento delle politiche mondiali, ma anch’esso, indelebilmente, ha segnato la nostra vicenda novecentesca.
Per l’Italia, come tutti sappiamo, il 1943 fu un anno cruciale. Nel mese di gennaio il paese era giunto al punto di grave esasperazione morale ed economica. Le sorti di una guerra incompresa e dagli obiettivi illogici si erano palesate come infauste. Le pesanti sconfitte, attenuate soltanto da qualche eroica prova di coraggio dei soldati italiani, ma soprattutto dall’intervento soccorritore dell’alleato tedesco, avevano prefigurato per il paese le più fosche prospettive. Se la Germania avesse ceduto, l’Italia sarebbe stata travolta con essa nella rappresaglia alleata, oppure sarebbe confluita nell’orbita d’influenza sovietica. Se i tedeschi avessero riportato una vittoria, il nostro paese avrebbe visto il proprio futuro nella configurazione di una perenne sudditanza a un potere dispotico e criminale. Questa alternativa drammatica doveva cominciare ad apparire chiara, nei primi mesi del 1943, al re, ai gerarchi fascisti e allo stesso Mussolini. Il popolo italiano, di fronte a tali scenari, non rimase inerte.
Sul principio di febbraio i sovietici avevano sovvertito l’andamento della guerra avviando a Stalingrado un’inesorabile controffensiva. La circolazione della notizia non tardò ad agitare gli animi. La sensazione di un cambiamento vicino partecipò nel definire la risoluzione di molti operai italiani del Nord-Italia, tra febbraio e marzo, ad avviare una sistematica sequenza di scioperi. Fu il primo campanello d’allarme. Il paese era in subbuglio. Le condizioni di vita imposte dalla guerra erano giunte al colmo della sopportazione. E l’orizzonte della sconfitta sempre più nitido. Il sovrano e il suo entourage cominciarono ad accarezzare l’ipotesi di svincolarsi dal destino mussoliniano e di stringere accordi con gli Alleati anglo-americani, i quali, intanto, completavano lo sbarco in Sicilia. Ma il timore della rappresaglia nazista indusse alla cautela e all’accettazione del progetto politico di Dino Grandi. L’idea era quella di abbandonare Mussolini al proprio destino, ma di salvare la struttura organizzativa del fascismo.
Alcune personalità perplesse sull’andamento della strategia con la quale il duce stava conducendo la guerra, come quella del genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, sostennero la mozione di Grandi, e in qualche modo lo stesso duce ne favorì la riuscita. Fu infatti quest’ultimo a convocare il Gran Consiglio del Fascismo, che da molti anni non si riuniva, e senza troppo battagliare ne accettò il verdetto. Secondo alcuni storici il duce sperava di conservare l’appoggio monarchico, uscendo così rafforzato dal confronto con i suoi. Altri interpreti, invece, hanno suggerito l’insinuazione di una complicità di Mussolini – vistosi ormai perso di fronte al precipitare degli eventi bellici – nella sua stessa uscita di scena. Siamo così al fatidico 25 luglio, data della deposizione del capo di governo. Per incarico del re, il maresciallo Badoglio ne prese il posto garantendo la continuità dell’alleanza con i tedeschi. Intanto, occultamente, prendevano avvio le trattative con gli Alleati, i quali, dal canto loro, esigevano una resa incondizionata. Tutte le testimonianze d’epoca concordano sul clima di festa e gioia seguito alla notizia del 25 luglio. Scriveva il giurista Pietro Calamandrei nel suo Diario:
“si è ritrovata la patria! Ah che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per le strade, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all’operaio che passa in bicicletta […] C’è in questi discorsi detti più che con ira con commozione, una tenerezza tremante che sta sotto alle parole comuni: questa tenerezza è la patria. Ci siamo ritrovati. Siamo uomini anche noi”
Questa precisazione finale è decisiva per capire il significato del 25 luglio, perché la vera colpa morale del fascismo nei confronti del popolo fu quella di escludere dalla nozione di umanità gli oppositori, i quali finirono per sentirsi stranieri in patria. Questo grave atto politico peserà a lungo, e pesa ancora oggi, sulle nostre relazioni civili.
L’estate del 1943 costituì il teatro politico di una malgestita approssimazione verso l’armistizio, ma anche dei primi significativi posizionamenti in montagna di una parte dei futuri resistenti. L’ignominiosa fuga del re verso Brindisi e la tentennante gestione di una dichiarazione di resa tenuta celata da Badoglio per timore della rappresaglia germanica, contribuirono a generare una crepa profonda e permanente tra i cittadini italiani e la monarchia sabauda. L’Italia che aveva incoronato Vittorio Emanuele II, avrebbe forse perdonato al re l’acquiescenza nei confronti della dittatura fascista e l’avallo delle leggi razziali. Ma la vergogna della ritirata, accompagnata da un sostanziale abbandono delle truppe al nemico, apparve ai più come il segno di uno strappo definitivo. Se la monarchia riuscì ancora per qualche anno a giocare un ruolo nella politica italiana, lo si deve sostanzialmente alla scelta tattica dell’ Unione Sovietica e degli anglo-americani, concordi nel riconoscere nel re un interlocutore diplomatico, nell’ambito della transizione dal fascismo al post-fascismo.
L’8 settembre l’annuncio dell’armistizio fu dato. L’amico diventava nemico; il nemico amico. L’antico alleato, dopo un primo disorientamento, aggregò rabbiosamente le proprie forze per punire severamente il tradimento. Il nuovo socio, da parte sua, diffidava di chi era stato fascista fino al giorno prima, aveva marciato con gli hitleriani nell’ostilità manifesta verso le potenze plutocratiche e nell’odio razziale. Esitava dunque nel sostegno alle bande partigiane, che intanto iniziavano a organizzarsi. Ma i resistenti restarono sostanzialmente isolati anche da quel che rimaneva dell’esercito regio, consegnato di fatto nelle braccia dell’incertezza. Quel dubbio sul posizionamento dei militari fu ritenuto necessario dal re e da Badoglio per confondere il nemico. Gli ufficiali, privi di ordini, non osavano prendere alcuna iniziativa. I soldati erano provati dalle dure condizioni belliche imposte da uno dei conflitti più atroci e irrazionali della storia. I tedeschi non impiegarono molto a liquidare quel che restava delle nostre truppe sotto la guida dei feldmarescialli Rommel e Kesserling.
I vertici militari italiani non capirono la Resistenza. L’avevano combattuta in Francia e in Jugoslavia, così in patria furono inclini a interpretarla in chiave banditistica e sovversiva. Pochi giorni fa, l’ormai centenario Luchino Dal Verme così racconta in un’intervista rilasciata alla rivista socialista “Mondoperaio” sulla discussione che animava ufficiali e sottoufficiali alla notizia dell’8 settembre, rispondendo a una domanda in cui si chiedeva come mai i militari non pensarono di unirsi alla Resistenza: “un’idea così non venne a nessuno. Alla fine prevalse l’idea di scioglierci e di scappare”. Col tempo alcuni soldati, tra cui lo stesso Dal Verme, isolatamente, raggiunsero i partigiani sulle montagne, rivelandosi, per la propria esperienza pregressa, elementi preziosi nell’organizzazione dei gruppi ribelli.
L’8 settembre, dunque, avviò nella vicenda italiana un’improvvisa accelerazione militare e politica. A partire dall’autunno, la storia del 1943 diventava storia di popolo. Ad agire, a ribellarsi, furono inizialmente in pochi, ma circondati da una tacita approvazione e dalla rapida costituzione di una rete di solidarietà nell’insurrezione contro l’occupante tedesco. Ma il terrore nazista non tardò a manifestarsi. Ad appena una settimana dall’annuncio dell’armistizio, il 15 del mese, a Meina, sul lago Maggiore, dove si nascondevano alcune famiglie ebree, diciassette persone vennero fermate dalle SS e rinchiuse in un hotel del posto. Pochi giorni dopo, dodici di loro furono condotti in piena notte in riva al lago, freddati con un colpo alla nuca, e abbandonati in acqua, allacciati a pesanti massi. Tuttavia le acque del lago sciolsero i lacci, e così, al mattino, alcuni barcaioli ne videro affiorare i corpi. Negli stessi giorni si svolsero i drammatici fatti di Boves, in Piemonte. I tedeschi credevano di trovarvi corpi regolari dell’esercito italiano disposti alla ribellione. Si trattava invece di militari sbandati, rifugiati, in tutto un centinaio, raccolti insieme ai compaesani per costituire un gruppo ribelle. I tedeschi giunsero in piazza intimando la consegna dei rivoltosi, ma trovarono un clima ostile. Due SS furono catturate e portate in montagna accompagnate dal plauso della popolazione. I tedeschi minacciarono di distruggere il paese in assenza dell’immediata liberazione dei due prigionieri. I partigiani cedettero, e rilasciarono le SS. Ciononostante, ventitré cittadini di Boves furono passati per la mitraglia, e il paese dato alle fiamme. Il terrore nazista, già dimostrato in Polonia o in Russia, arrivava ora anche in Italia.
A fine settembre l’episodio più entusiasmante e precoce della ribellione libertaria. Nei giorni successivi la dichiarazione dell’armistizio, sconnessi e indisciplinati gruppuscoli di ribelli napoletani avevano cominciato a procacciarsi armi dai depositi italiani e tedeschi. La mattina del 27 un movimento di carri tedeschi in uscita dalla Floridiana viene scambiato per l’inizio di una ritirata. Il popolo entrò in agitazione, cominciarono azioni disordinate. Due tedeschi furono allontanati dalla Rinascente a colpi di rivoltella, un maresciallo nazista freddato al Vomero. Intanto prese a circolare la voce di un imminente sbarco degli Alleati a Bagnoli. Divampò la guerra di popolo. Il 28 mattina insorti e tedeschi a turno si contendevano piazza Vanvitelli. I ribelli napoletani respinsero gli occupanti a Porta Capuana e al ponte della Sanità. La rivolta era anarchica, protagonisti anche scugnizzi e giovani scapestrati. Però fu un’insurrezione eroica. Il 30 settembre i tedeschi abbandonavano definitivamente Napoli, lasciando sul terreno 66 morti tra i ribelli.
L’insofferenza partenopea non era caso isolato nel Mezzogiorno. Una settimana prima, Matera aveva risposto con le armi ai soprusi dei soldati tedeschi, come episodi di ribellione si registrarono a Nola, Teramo, Lanciano.
Nel Nord del paese la scelta fu meno istintiva. Ne era simbolo la montagna, luogo di rifugio e organizzazione delle bande partigiane. La montagna si rivelò il contesto adatto per la maturazione di una nuova Italia. Lì si apriva lo spazio necessario per tacere, ma anche per discutere, dopo vent’anni di dittatura e imposizione del silenzio. La montagna accolse studenti, professori, operai, renitenti alla leva, giovani esaltati o montanari orgogliosi. Sulla montagna si osservava e colpiva l’invasore. Si avviò un’azione di guerriglia che rese sempre più difficile la permanenza del nemico sul territorio nazionale, ma che costituì per le popolazioni anche un riferimento ideale, la possibilità dell’altro, quell’altro da favorire con soffiate, silenzi, sostegno logistico. Alla resistenza attiva, infatti, si affiancò ben presto una resistenza passiva.
Per il fronte dei rivoltosi il 1943 si concluse, il 28 dicembre, con la tragica fucilazione, per mano fascista, dei sette fratelli Cervi, rei di aver accolto e curato i prigionieri di guerra fuggiti dai campi.
Naturalmente in concomitanza con le azioni partigiane si risvegliava nel paese la vitalità delle organizzazioni politiche che per venti anni erano state arrestate in condizione di silenzio, e che avviavano adesso un percorso di ricostruzione, che avrebbe trovato compimento con la Costituente e la prima consultazione elettorale repubblicana. Non si vuole tuttavia far torto a uomini e donne che nell’edificazione del futuro quadro politico hanno vissuto la prigionia, hanno rischiato la vita e hanno lasciato famiglie e interessi personali. Non si vogliono occultare i vari Longo, Pertini, Nenni, La Malfa, Togliatti, De Gasperi, Bonomi, né le loro importanti scelte politiche. Ma, come scrisse bene Giorgio Bocca, non furono queste decisioni a mutare nel profondo la condizione della nazione, non fu loro il merito di “promuovere realmente il progresso democratico del paese, quello duraturo. Questo merito è della Resistenza, la sola che modifica il costume italiano, il rapporto dell’italiano con lo stato”.
Noi giorni successivi l’annuncio dell’armistizio, sul fronte avverso, i tedeschi avevano rapidamente sottratto Mussolini alla reclusione seguita al 25 luglio, per collocarlo in posizione non meno costretta, a capo di uno stato-fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, il cui principale ruolo storico fu ridotto a quello di conduzione – al fianco, o meglio al rimorchio dei tedeschi – una guerra fratricida all’inseguimento dei “traditori” comunisti o badogliani. Tra gli occupanti e gli occupati, in questo modo, si interponeva una forza ambigua, la cui configurazione avrebbe complicato in seguito il processo di decifrazione della natura del conflitto, e reso particolarmente difficile il ricomporsi di una memoria comune nell’Italia del dopoguerra. Il 1943, per ragioni politiche e militari, consegnò alla storia drammatiche lacerazioni nell’identità nazionale.
L’eredità di tale scenario può essere raccontata attraverso le profonde divisioni che ancora oggi segnano il nostro paese, la nostra comunità disgregata. La prima, più vistosa, concerne il divario tra il Nord e il Sud. Ma non è semplicemente un risultato della guerra, è invece un dato di continuità con gli anni del processo di unificazione. Tuttavia, divise dalla linea Gustav su cui si attestarono con imponenza i tedeschi dopo l’8 settembre, il Regno del Sud a guida monarchica e sotto tutela alleata – e la RSI, innervata di tensioni ribellistiche e aspirazioni libertarie, il solco andò ad approfondirsi senza rimedio possibile. Il Mezzogiorno, salvo le episodiche benché eroiche insurrezioni di Matera e Napoli, e qualche isolato caso in altri comuni, non conobbe un movimento resistenziale organizzato. Al Sud dilagarono nella popolazione fenomeni che ahinoi conosciamo bene, come il contrabbando e la mafia, che trovarono modo di potenziarsi in quelle drammatiche circostanze. Tenue rimase la domanda di libertà politiche. Non a caso, dopo le elezioni del 1946, il Sud si espresse a maggioranza in favore della monarchia, e assai deboli furono i risultati elettorali delle sinistre, destinati a rimanere tali ancora a lungo.
Quando si trattò di mettere in atto le ovvie epurazioni post-belliche, l’atteggiamento politico meridionale si distinse per ambiguità. Il CLN del Sud per un verso esprimeva un moralismo duro e puro ma, specie in provincia, nascondeva anche vendette personali e malcelati clientelismi e carrierismi. Secondo lo storico Sandro Setta:
“la lotta politica, ripresa con veemenza dopo venti anni di silenzio, svelava aspetti sconcertanti di corruzione e di avidità di potere, i partiti si contendevano le cariche pubbliche ostentando una rappresentatività ottenuta con una guerra al tesseramento indiscriminato, che favoriva il reinserimento nella vita pubblica di elementi squalificati del prefascismo, e anche di ambienti mafiosi, di larghe schiere di fascisti convertiti all’utlim’ora agli “ideali della Resistenza” e per nulla vergognosi di giudicare, nelle nuove vesti di “giacobini”, le “macchie fasciste” del prossimo”.
Nel Centro e nel Nord del Paese, la Resistenza aveva dato modo a un’intera generazione di italiani di risvegliarsi dal sonno politico. Aveva creato occasioni di discussione, voglia di un’esistenza libera e autodeterminata. Le opposizioni clandestine palesandosi si erano incontrate con nuove volontà civiche, contaminandosi vicendevolmente. I militari unitisi ai rivoltosi aprirono la propria attenzione alle esigenze e allo stile dei civili, mentre questi ultimi appresero dai soldati il valore della disciplina secondo un significato diverso dall’ideologismo fascista. Il partigianato aveva insegnato a interi gruppi di ragazzi e ragazze a organizzarsi e ad assumere decisioni. Aveva creato gerarchie sul campo e aveva divulgato ideali, conoscenze, visioni del mondo. I resistenti avevano spesso visto morire i propri familiari, per rappresaglia contro di loro, avevano guardato essi stessi in volto la morte, avevano combattuto contro altri italiani, e questa fu forse l’esperienza più dolorosa. Il Centro-Nord non riuscì più a fidarsi del sovrano né di Badoglio, il quale, tra l’altro, aveva dato prova di ostilità all’antifascismo e di forte pulsione riabilitativa nei confronti delle vecchie gerarchie. Il CLN dell’Alta Italia esigeva un profondo rinnovamento istituzionale, e nel 1946 votò massicciamente a favore della Repubblica, con grande affermazione delle sinistre.
L’altra grande frattura fu approfondita nel conflitto tra italiani e italiani. Secondo la nota ma contrastata formula di Pavone, la Resistenza all’occupante fu anche una “guerra civile” e, come si sa, essa è la più terribile delle guerre. Senza indugiare sulla storia di tale definizione, non v’è dubbio che dal punto di vista tecnico una parte di italiani bombardò, imprigionò, fucilò o deportò altri italiani. L’accanimento dei resistenti contro il fascista fu forse più aspro del sentimento avverso rivolto all’occupante straniero. L’odio dei repubblichini era prevalentemente rivolto ai partigiani, piuttosto che agli anglo-americani. Nel 1943, si iniziavano a fare i conti tra fascisti e antifascisti, e quel conflitto, per una parte, era anche un conflitto di classe. Si trattava di un antagonismo complesso, segnato pure da una radicale contrapposizione culturale. Fu guerra fratricida, perché nella stessa famiglia si divaricarono le posizioni dall’uno e dall’altro campo del conflitto. I rancori erano tanti, a volte sfociarono in vendette personali, protratte anche dopo la guerra. Le questioni private, nelle guerre civili, si intrecciano a quelle politiche, pericolosamente. L’uno guardava all’altro come il peggiore dei mali, come quella parte di sé che s’intende cancellare o estirpare. L’uno pensava all’altro come l’irriducibile negativo. Nasceva lì, forse, quella maniera di concepire i rapporti politici in chiave di permanente antagonismo antropologico, nell’ottica di una netta contrapposizione tra il “noi” e il “loro”, che non è segnato soltanto da connotati classisti, ma è una perenne esasperazione di antagonismo. Il dopoguerra ne fece le spese.
La nuova Repubblica avviò una campagna elettorale all’insegna del conflitto di civiltà. La DC e il PCI, in particolare, cercarono attraverso la propaganda di suggerire alla popolazione il pericolo insito nella natura dell’altro. I manifesti elettorali di entrambi i partiti sollecitavano paure e speranze. Già allora, occorre riconoscerlo, il confronto politico andava misurandosi sulla demonizzazione dell’avversario. Certo la DC non ereditava nulla del fascismo, se non una parte importante del blocco sociale di riferimento. Ma prima o poi, ciò che non era stato risolto in una vera resa dei conti del paese con il proprio passato, sarebbe tornato a suonare alle porte della storia. A partire dal 1960, quando il governo DC di Tambroni aprì al Movimento Sociale Italiano, si scatenarono le tre giornate di Genova e le proteste di Reggio Emilia, che costrinsero Tambroni alle dimissioni. La latente conflittualità, aggravata dalla Guerra Fredda, trascinò il paese nella drammatica stagione delle stragi, da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna, e per converso scatenò la cieca iniziativa delle organizzazioni terroristiche di destra e di sinistra, che pretesero di rivitalizzare proprio quei momenti politicamente più cupi della “guerra civile”, evocando stolidamente soltanto il sangue.
Oggi paghiamo ancora, è evidente a tutti, gli effetti di una cattiva maturazione dell’esperienza bellica. Non abbiamo risolto lo schema del conflitto antropologico, della descrizione dell’altro come pericolo radicale, e di una conflittualità diffusa nei più stretti meandri della società civile. Anche il PCI, non si accontentò della sovietica contrapposizione classista, ma sentì il bisogno di una presa di distanza morale dagli “altri”, volle costituire un “paese nel paese”, secondo la definizione interessante, ma sbagliata, di Pasolini. L’altro era dunque destinato a rimanere uno straniero, un intruso.
La fine del fascismo ci aveva consegnato una nazione arretrata, soprattutto sul piano della consapevolezza democratica. Secondo Norberto Bobbio, “il fascismo, con la sua retorica, col suo disprezzo per i valori della civiltà liberale, col suo bisogno di conformismo e di servilismo, con la smania di violenza spicciola e di potenza fittizia, fu la sintesi di tutti i caratteri negativi del popolo italiano”.
Eppure, dobbiamo ricordarlo, il 1943 ha aperto anche la strada alla ricostruzione di una comunità che, nonostante le profonde divisioni, ha saputo ricostruire – prescindendo dagli aiuti del piano Marshall – un senso della bellezza e dei sentimenti civili. Solo in Italia, tra tutti i paesi europei, duramente segnati dalla guerra, l’arte ha saputo imporre alla collettività una speranza fiduciosa nel valore dei sentimenti umani. Basti citare il Metello di Pratolini, l’attivismo culturale di Elio Vittorini o i film di Vittorio De Sica. L’antifascismo che si esprimeva in tanti capolavori raccontava un’Italia innamorata della libertà, dei legami interpersonali e degli affetti, un’Italia che facendo leva su quei valori fondanti e più volte richiamati dal teatro di Eduardo De Filippo, portava con sé una forza orientata al cambiamento, tale da rendere impossibile la costituzione di un qualsiasi blocco conservatore capace di fronteggiarlo. Ci provò inizialmente la Democrazia Cristiana, ma anche in essa pulsava una componente progressista che trovò presto un proprio protagonismo nel secondo dopoguerra.
Per il resto, come si vede bene, la storia d’Italia è pregna di contraddizioni e ambiguità. Di dolorosi conflitti, ma pure di un senso del bello e del giusto che non fu colto allo stesso modo o con la stessa intensità dagli altri movimenti resistenziali. Oggi la nostra vita nazionale ci appare immersa nella foschia, poiché prevale, di quell’amara alternanza, il lato ombroso. Occorre dunque lavorare ancora, per ripristinare la luce che il desiderio di rigenerazione popolare riuscì a far risplendere circa settant’anni fa.