La viticoltura nel Cilento, dall’antichità all’età contemporanea
L’arte della coltivazione della vite e della produzione del vino risale a tempi molto lontani. La viticoltura, secondo molti storici, nasce in oriente (Anatolia, Mesopotamia, Iran, Georgia, Armenia). In Egitto la viticoltura era sviluppata già nel XV secolo a. C. (fig. 1). Nello stesso periodo era praticata anche in Grecia. Furono proprio i greci a importare intorno al VII secolo a. C., in quella regione dell’Italia meridionale che passò alla storia come “Magna Grecia”, sia nuovi vitigni sia più appropriate tecniche di coltivazione e vinificazione.
Gli eventi, che nel Cilento hanno determinato la diffusione della coltura domesticata della vite e dei processi di vinificazione, sono sotto riassunti.
La colonizzazione da parte degli Enotri (XIII secolo a. C.)
Questo popolo, guidato da Enotro, giunse per mare dall’Arcadia, regione della Grecia al centro del Peloponneso. Gli Enotri s’insediarono sulle coste ioniche, golfo di Taranto, e quindi risalendo le vie fluviali tracciate dal fiume Acri e Basento, si spinsero fino all’attuale Cilento e nel Vallo di Diano, dove vennero a contatto con popolazioni autoctone di origine sannitica e lucana.
Gli Enotri estesero il lodo dominio in un’ampia regione dell’Italia meridionale (sul versante tirrenico) che comprendeva anche il Cilento, cui fu assegnato il nome di Enotria [4].
<Narrano gli antichi Greci che Italo (figlio primogenito di Enotro) fosse il re degli Enotri e che fosse stato il primo a insegnare al proprio popolo … l’arte della vite e del vino … Con Italo gli enotri smisero di vagare … Gli antichi Greci dunque presero a chiamare Italia o Enotria questa terra …> [5].
Da fonti archeologiche, letterarie e anche mitologiche si deduce che, dal secondo millennio a. C. la venuta degli Enotri determina un’area (Enotria) dove si vanno a consolidare pratiche e tecniche legate alla coltura della vite e alla produzione del vino.
Amedeo La Greca ricorda come gli Enotri fossero conosciuti per la loro competenza sia nella coltivazione della vite sia nella produzione del vino [2].
Aniello Botti e altri in una loro pubblicazione confermano che nel Cilento la domesticazione della vite risalga a epoca antecedente all’era della “Magna Grecia”(VIII secolo a.C.). A questo riguardo scrivono: < … si riteneva, qualche decennio fa: che fossero stati i Greci (i coloni che fondarono la Magna Grecia) a portare la coltura della vite in Italia. Ma recenti indagini archeobotaniche datano questa presenza in Italia già nel secondo millennio a. C. Del resto, a leggere attentamente l’Odissea di Omero, già Polifemo, e con lui le popolazioni indigene dell’Italia e della Sicilia, prima dei coloni greci producevano vino da viti selvatiche> [1].
Recenti studi fanno risalire agli Enotri i “Palmenti”, vasche scavate nella roccia usate per la spremitura dell’uva, ritrovati anche in alcune contrade del Cilento (fig. 2). <… grossi tini incavati in megaliti usati un tempo come raccoglitori per la spremitura dell’uva … di certo vanno allocati come cultura materiale di pregio degli Enotri> [2].
La colonizzazione dei greci, la “Magna Grecia” (VIII secolo a. C.)
Tra l’VIII e il VI secolo a. C., una vasta area del sud d’Italia e della Sicilia, incluso le zone costiere dell’attuale Cilento, fu colonizzata dai greci che vi fondarono un numero rilevante d’importanti città. Questa regione passò alla storia con il nome di “Magna Grecia” [6].
Palinuro e Molpa, secondo Amedeo La Greca, preesistenti insediamenti Enotri, già alla fine del VI secolo, erano state sottoposte a Velia essendo porti di grande interesse strategico [7].
Quando i Greci s’insediarono nell’Enotria trovarono popolazioni indigene che già praticavano, anche se con metodiche molto primitive, l’arte del vino. Gli ellenici importarono nel mezzogiorno d’Italia, nuove e più performanti tecnologie di coltivazione (a. es. la vite maritata e la potatura corta) e di trasformazione dell’uva in vino. Essi inoltre introdussero più appropriati vitigni di origine orientale (a. es. la Vitis vinifera L.) [8].
I Greci implementarono la produzione di vino che divenne un’importante merce di scambio; ebbero il merito di aver trasformato questa bevanda da semplice prodotto alimentare a uso domestico o religioso a prezioso bene ricercato sui mercati ed esportato, prevalentemente via mare, in molte regioni del Mediterraneo [ 8, 22].
La popolarità del vino nella Magna Grecia è documentata dall’immagine di fig. 3 [9].
Circa il ruolo dei greci nello sviluppo della viticoltura nel Cilento nel riferimento [23] è scritto: <i vitigni cilentani traggono la propria origine dall’antica Grecia, infatti, i vitigni locali, introdotti a Elea e aPaestum dagli antichi colonizzatori greci, trovano nella natura argillosa – calcarea del terreno e nel clima della zona le condizioni per esprimere al meglio la propria personalità> [23].
L’Era dei romani in Magna Grecia e nel Cilento
La conquista di Taranto (272 d. C.) decretò la fine dell’autonomia delle città della Magna Grecia, che pertanto entrarono nell’orbita di Roma. Con i romani le terre a sud del fiume Sele, comprendenti anche il Cilento, andarono a costituire una regione chiamata Lucania. L’insediamento dei romani nelle regioni della Magna Grecia portò a un miglioramento delle pratiche sia di coltura della vite sia delle tecniche di vinificazione, che rimarranno, essenzialmente, inalterati fino al XVIII secolo: furono gettate le basi per la moderna enologia. La produzione di vino e la sua commercializzazione subirono un fortissimo impulso: il vino diviene un importante bene di consumo [11].
Tra le innovazioni più rilevanti, introdotte dai romani, si ricordano le seguenti:
1. La realizzazione delle prime “ville rustiche” dove sono accentrati frantoi, palmenti, mulini, magazzini e impianti di trasformazione per la produzione di olio, vino e farine.
<La villa rustica in origine era sostanzialmente il nucleo di un’azienda agraria a conduzione familiare, dove era prodotto ciò che era necessario al sostentamento. Col passare degli anni e l’accrescersi della potenza di Roma, che a ogni conquista trasferiva in Italia centinaia di migliaia di schiavi …, le ville rustiche si fecero sempre più grandi … e la produzione agricola diventò un’attività il cui scopo non era più semplicemente quello di sfamare il padrone, ma anche e soprattutto di vendere i prodotti in eccesso anche su mercati lontani> [18].
In queste fattorie la pigiatura era effettuata prima all’aperto in vasche di pietra (palmenti) e poi in un locale chiamato “calcatorium” in cui le uve erano schiacciate con i piedi, in tini di legno, dai “calcatores” (fig. 4) [19].
2. La pressatura delle vinacce (residui della pigiatura dell’uva) mediante torchi a leva e a vite.
<La diffusa commercializzazione del vino in tutto l’impero porta alla necessità di razionalizzare e addirittura a disciplinare il prodotto, sia nella produzione sia nella compravendita. Di pari passo si sviluppano le macchine necessarie nel processo di produzione e in speciale modo i cosiddetti torchi vinari (figg. 5 e 6)> [19].
Solo in seguito furono introdotti i torchi a vite, mossi a mano, del tipo di quello mostrato nella fig. 7 [21].
I torchi vinari avevano la funzione di sottoporre a torchiatura le vinacce, ciò che rimane dell’uva pigiata dopo che ne è stato separato il mosto (graspi, bucce, vinaccioli). Il succo ottenuto era di solito unito al mosto, oppure era utilizzato per produrre l’aceto che all’epoca era non solo impiegato nella cucina ma anche nella conservazione di molti alimenti.
Vincenzo Gatti nelle sue “Memorie statistiche” … in Principato Citeriore (1814)” nel descrivere la costruzione di un rudimentale torchio a leva per vinacce, asserisce che questi tipi di torchio erano ancora di uso comune in molte contrade del Cilento nei primi decenni del secolo XIX[28
L’esemplare di torchio vinario a vite, rappresentato nella fig. 7, era comunemente usato nel Cilento e quindi anche a Centola fino agli anni “50-60 del secolo scorso [21, 22].
3. La sostituzione dei contenitori di terracotta con botti e barili di legno.
Per il trasporto del vino, prima dell’introduzione dei contenitori di legno, era impiegata <l’anfora, un grosso contenitore di terracotta dotato di collo stretto e lungo, che poteva essere chiuso con tappi di terracotta o di sughero, di corpo capiente, con due solide anse contrapposte per la presa e di un puntale d’appoggio. Tale forma … era … dettata dalla necessità di facilitare lo stivaggio all’interno delle navi … Erano impermeabilizzate internamente con resine aromatizzanti> (fig. 8) [24].
I contenitori di legno, barili e botti, di varie dimensioni, sostituirono quelli in terracotta per le loro specifiche caratteristiche: leggerezza, basso costo di produzione, resistenza all’urto, e maggiore adattabilità al trasporto del vino e di altri liquidi, anche solidi, sia via mare sia su carri oppure a dorso di mulo o asino.
L’introduzione di questi contenitori facilitò di molto la commercializzazione del vino. Sembra che i popoli celti siano stati i primi a usare le botti nella conservazione del vino [25].
La tecnologia per la fabbricazione delle botti si espanse in tutta Europa e ben presto fu acquisita anche dai romani. Marco Porcio Catone, detto l’Uticense (95 – 46 a. C.), politico romano e questore, pronipote di Catone il Censore, così descrive la costruzione di questi manufatti: <Lega le botti di legno di quercia con il piombo e fasciale con tralci di vite secca, poi introduci nelle fessure del mastice fatto di cera, resina e zolfo sciolti sul fuoco e ai quali aggiungerai gesso per renderlo denso e con esso spalma anche le botti> [26].
Le caratteristiche delle botti sono citate anche da Strabone, storico e geografo di origine greca (64 – 24 d. C.) e da Plinio, il quale ultimo <raccomanda di prestare attenzione nella loro pulizia poiché era alto il rischio di asfissia> [26]. All’epoca sembra che il legno maggiormente usato fosse quello di quercia. L’utilizzo di botti o barili da parte dei romani è documentato dalla scena di trasporto che si osserva sulla colonna marmorea eretta a Roma nel 113 d. C. in onore di Traiano, per celebrare le sue vittoriose campagne in Dacia, attuale Romania [27].
Nel 1596 Andrea Bacci, autore di diversi scritti sul vino, descrive la pigiatura e la fermentazione all’interno di grossi tini di legno <fabbricati con quercia o altro legno robusto> [26].
Il monachesimo di rito latino e greco – bizantino. Le grandi Abazie/Monasteri nel Cilento
Dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente, fissata dagli storici nel 476 d. C. quando Odoacre depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, e a seguito della guerra tra Goti e Bizantini (535-553), s’insediarono nell’Italia meridionale e anche nel Cilento le prime comunità di monaci di rito greco bizantino, comunemente chiamati “Basiliani”.
Biagio Cappelli scrive: <Il primo afflusso … Basiliano penso che abbia seguito di pari passo le armate condotte da Belisario e da Narsete contro i goti ariani in una guerra … che aveva un carattere religioso. …> [31].
Un più massiccio afflusso di monaci di rito greco bizantino si ebbe a verificare dalla prima metà del secolo VIII. Questi religiosi fuggivano per sottrarsi alla persecuzione iconoclasta intentata dall’imperatore bizantino Leone III Isaurico [32]. < … al periodo iconoclasta sembra doversi attribuire la formazione delle cittadelle ascetiche del Mercurion e di monte Bulgheria (anche detto monte Cellerano)> [31].
Lo sviluppo del monachesimo basiliano e quello di rito latino, proprio dei “Benedettini”, portarono, nel Cilento, alla costruzione di abazie o monasteri di rilevante interesse.
Lasciti da parte di ricche e nobili famiglie contribuirono a incrementare i patrimoni immobiliari dei monasteri che si arricchirono di vasti possedimenti. E’ ampiamente documentato che alcune grandi abazie siano state fondate ex novo a seguito di cospicue donazioni da parte d’importanti feudatari.
Secondo Francesco Barra, l’Abazia di Santa Maria di Centola rientra in quest’ultima categoria. <… Il primo documento in cui essa è ricordata risale al 1086, quando il normanno Ruggero Sanseverino, signore dell’omonima baronia, eseguì a suo beneficio una ricca donazione … La rilevanza stessa della donazione e la mancanza di riferimenti antecedenti all’abazia fanno pensare a una fondazione ex novo, avvenuta di recente … Sembra inoltre che dovrebbe trattarsi di una fondazione latina benedettina finalizzata, secondo la tipica prassi della politica religiosa dei Normanni, a controbilanciare la massiccia presenza basiliana nella zona> [17].
Il monachesimo introdusse nel Cilento profonde innovazioni sia nel campo delle pratiche agricole sia nell’artigianato sia nelle costruzioni e nell’assistenza medica. Nuovi criteri furono adottati per uno sfruttamento più razionale e produttivo dei terreni e per un loro risanamento. Tutto ciò portò all’incremento della produzione di grano, vino e olio [31]. I monaci, impegnati in una missione non solo religiosa, ma anche di natura sociale ed economica, adottarono una politica di sviluppo del territorio dando in concessione ai contadini della loro zona terre incolte con l’obiettivo di renderli fertili impiantando uliveti, vigneti, frutteti, favorendo la seminagione del grano e del pascolo. Tra l’altro furono diffuse nuove forme di coltivazione e di trasformazione dei prodotti derivanti dalla coltivazione delle terre e dalla pastorizia, edificando altresì strutture simili alle fattorie dei romani.
Anche la vitivinicoltura, nel Cilento, fu ulteriormente migliorata rispetto al livello qualitativo e quantitativo di epoca romana [1].
Riguardo a quanto sopra nel riferimento [13] è scritto:
<Cambiava, a questo punto, profondamente la figura del monaco che da asceta diveniva elemento attivo nel tessuto sociale delle campagne cilentane. Venivano ridotte a coltura, grazie alla loro opera, zone selvose e sterpose, altre erano dissodate, altre ancora adibite a piantagioni e, cosa più importante, autentici villaggi agricoli erano da essi costruiti nel circuito agrario del cenobio>.
Molti paesi del Cilento ebbero la loro origine e/o crebbero a seguito di un processo di “incellulamento” (simile per certi versi a quello dell’incastellamento) accanto ai monasteri viciniori; è probabile che questo sia stato il caso di Centola [14]. Ai monaci basiliani si deve l’introduzione di pregiati vitigni, che contribuirono a esaltare la qualità del vino prodotto nel Cilento. Essi inoltre badarono a favorirne la coltivazione attraverso una paziente e laboriosa opera di terrazzamento, fondamentale in aree collinose come quelle del territorio centolese [17]. Non è azzardato affermare che nel medioevo e in età moderna la vitivinicoltura, nel Cilento, progredisce anche per la presenza di abbazie e monasteri. Monaci e frati <… grazie alle mura delle abbazie e all’uso liturgico fanno sopravvivere la cultura dell’enologia. Le botti sono prodotte nelle officine, dove laboriosi monaci perfezionano la loro costruzione> [26].
Gli accadimenti in età contemporanea
Vincenzo Gatti, riguardo all’anno 1814, a proposito del vino in Principato Citeriore scrive: <Gli abitanti di tali circondari sono ghiotti di vino, che vi si trova eccellente … La fermentazione dei vini si fa senza alcuna regola; ma con tutto ciò molto di raro si sbaglia. La vendemmia si pratica al giusto maturo dell’uva. Non si conosce nessuna mistura per accomodare i vini. Desideriamo che questa ignoranza continuasse> [28].
Dal testo del Gatti si ricavano informazioni utili anche alla conoscenza delle pratiche secondo cui nei primi decenni dell’Ottocento si provvedeva alla coltivazione delle viti e alla vinificazione. <… La coltura delle viti si fa mediocremente: non si ha la cura di scegliere le uve nella vendemmia. Con tal metodo riuscirebbero meglio i vini, che pur senza la scelta delle uve riescono forti e di un gusto squisito. Le uve si pestano dagli uomini dentro tinacci coi loro piedi …. I vini non si travasano giammai. Quando hanno fermentato nei tinacci si trasportano su i somari entro gli otri di capra (fig. 9). Questo sistema molto pregiudica così per la fortezza, che per il gusto dei vini, che ciò nonostante riescono buoni … Nel vendemmiare l’uve non si separano affatto, non avendosi nemmeno l’attenzione di scegliere quelle immature e fraccide> [28].
Il Gatti pur mettendo in risalto i difetti delle pratiche usate nelle contrade del Cilento non può non rilevare che comunque i vini prodotti fossero di buona qualità e spessore.
Nel Cilento la viticoltura tra alti e bassi prosperò, il vino prodotto, attraverso vie marittime e terrestri era esportato e commercializzato sia in Italia sia in paesi esteri. Questo è documentato da Cosimo De Giorgi che nel suo libro “Viaggio nel Cilento”, riguardo all’anno 1881, <testimonia di avere incontrato a Pellare e a Moio della Civitella dei francesi interessati all’acquisto del vino> a dimostrazione <della capacità dei cilentani dell’Ottocento di commerciare con la Francia> [30].
Il De Giorgi visita altre contrade del Cilento caratterizzate <da vigneti che danno del vino molto alcolico da non invidiare quelli di Brindisi e di Barletta> [30].
La viticoltura nel Cilento pur subendo una gravissima battuta d’arresto, quando verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, i vigneti in tutta Europa subirono l’attacco di un micidiale parassita (la Fillossera) giunto dall’America del nord, riuscì tuttavia a riprendersi, almeno in parte [14, 15, 16]. Purtroppo dopo la seconda guerra mondiale, a seguito di una grave crisi, i contadini, in massa, abbandonarono i campi ed emigrarono verso terre lontane. L’assenza di manodopera e la critica situazione sociale ed economica al contorno decretarono l’inesorabile declino della vitivinicoltura nel Cilento. Quella che era stata una delle più rilevanti, conosciute e apprezzate attività del Cilento subì una gravissima recessione.
La maggiore parte delle vigne, note per la produzione di vini ricercati e commercializzati per le loro particolari proprietà, fu espiantata.
Ci si auspica che nel prossimo futuro il Cilento possa ritornare a essere rinomato quale <la terra del vino>. Alcune iniziative degli ultimi anni lasciano prevedere che quest’obiettivo possa essere raggiunto, purché si ricreino le più appropriate condizioni al contorno che vedano anche il coinvolgimento di giovani imprenditori.
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Questo brano è estratto dal libro di Ezio Martuscelli,
<IL VINO DEL TERRITORIO DI CENTOLA; STORIA MITI E TRADIZIONI>, edito dall’Associazione Progetto Centola; tipografia Vincenzo Albano, Napoli (2019). (Figura 11).28/Settembre/2020