Lo scrittore Andrea Giovene di Girasole e l’antica necropoli di Palinuro

Venticinque anni fa moriva lo scrittore napoletano Andrea Giovene dei duchi di Girasole (Napoli, 1904; Sant’Agata dei Goti, 1995), membro di una famiglia di antica nobiltà il cui stemma è riprodotto nella figura 1 [1]. Egli scrisse una voluminosa opera narrativa intitolata “L’Autobiografia di Giuliano di Sansevero” nella quale racconta la storia di parte della sua vita (figura 2) [2].

<[] è il lungo racconto di un personaggio, appunto Giuliano di Sansevero, che si forma in un clima particolare, l’aristocrazia napoletana di derivazione ottocentesca, ma che è portatore d’istanze nuove […]. È la ricerca di una vita nuova che attraversa le drammatiche vicende italiane ed europee […]> [3].

La storia editoriale di questo libro fu molto articolata; fu stampato prima in Finlandia e Svezia e solo in seguito in Italia dalla casa editrice Rizzoli che lo pubblicò in cinque volumi tra il 1966 e il 1970 (figura 2) [4].

L’opera di Andrea Giovene, per la sua originalità, ebbe un grande successo negli ambienti della cultura straniera dove, si comprese “il respiro europeo della sua scrittura”. Da rilevare che circoli letterari scandinavi candidarono, all’epoca, lo scrittore per il premio Nobel. In Italia pur essendo stato recensito positivamente da importanti critici, il racconto non ebbe successo presso il grande pubblico [3,4].

Non molti sono a conoscenza che il terzo dei cinque libri, l’autore l’ha dedicato a descrivere, attraverso aneddoti ed esperienze di vita vissuta, quelli che erano, intorno agli anni “30 – “50 del secolo scorso, i costumi e le tradizioni della gente di Palinuro (Licudi, nel libro), un piccolo, isolato e povero borgo di contadini e pescatori del basso Cilento. Ne deriva uno splendido affresco di un paesaggio, di personaggi, di una società e delle tradizioni ataviche di un popolo. Dal racconto emergono avvenimenti rilevanti che hanno caratterizzato la storia di questo paesino dai primi decenni del XX secolo agli anni “50 e che purtroppo, come da lui previsto, ne avrebbero alterate le caratteristiche identitarie.

L’arrivo di Andrea Giovene a Palinuro, nel 1934, è così descritto dallo stesso autore:

<Licudi (Palinuro) quando io vi giunsi al cadere della estate del 1934, era poco più che un inizio di abitato. Un gruppo di case a ridosso della spiaggia, poche altre nel minuscolo porticciolo […]. Gli abitanti, coltivatori e pescatori insieme, costituivano appena un residuo dell’originaria popolazione, trasferita da decenni e per decenni in Uruguay, in Colombia, nel Cile. Quelli presenti […] saranno stati forse due o trecento […]> [2] (figure 3 e 4).

Lo scrittore, affascinato dalle bellezze incontaminate del luogo, forse anche per sfuggire da un ambiente cittadino in cui non si riconosceva più, acquistò un fondo olivato, i cui termini lambivano la spiaggia, poco al di fuori del centro abitato del borgo e vi costruì una casa, immersa tra enormi ulivi secolari.

L’autore, circa l’arretratezza del luogo, la povertà e l’indigenza della popolazione, sottomessa totalmente al potere e al volere di pochi “Galantuomini” che avevano sostituito i Principi e Baroni di un tempo e che possedevano la maggior parte delle terre (situazione, all’epoca comune a tutto il Cilento), scrive: <Aveva avuto le sue ragioni […] deprecando quelle politiche che “evirando l’aristocrazia avevano privato il Mezzogiorno dei suoi capi naturali”. Gli antichi signori, pareva, e per assoluti che fossero, avevano per sempre mantenuto nel feudo un palazzo, una chiesa, una biblioteca, un controllo che i piccoli usurpatori, avidi quanto gretti, non erano stati in grado di perpetuare dopo. Crollato il palazzo, spogliata la chiesa e devoluta la biblioteca ai sorci, anche la terra suddivisa e abusata s’impoveriva. […]. Gregge senza pastori il popolo di San Giovanni (Centola, di cui Licudi/Palinuro era fazione), come quello di tanti altri paesi similari dei monti, si era circoscritto nel suo chiuso. Fiumi di parole argomentavano sullo slittamento del Sud verso un tale silenzio; ma, a tanta foga verbale, il Sud opponeva, […] appunto quel silenzio> [2].

Il narratore trascorse lunghi periodi a Palinuro, tra gli anni “30 e “50 del secolo scorso.

Nel libro sono documentati, con larghezza di particolari, i costumi e le abitudini del popolo di Licudi, molto legato alle sue antiche tradizioni e a riti legati ad arcaiche forme di religiosità. Da rilevare come dalla lettura di queste pagine, ancora oggi, i giovani hanno la possibilità di ricavare elementi utili a conoscere le loro origini e identità culturale.

Qui di seguito è riportato quello che l’autore racconta circa il ruolo fondamentale che lo stesso ebbe nella scoperta dell’arcaica necropoli di Palinuro [2].

Lo scrittore, nel corso di lavori di scavo nell’oliveto che aveva acquistato e dove si era costruita una casa, s’imbatté in alcuni cocci in terracotta che apparivano essere, a un esame sommario, di antichissima fattura. Egli così racconta l’avvenimento:

<Fu così, che poco prima dell’estate, appunto seguendoli in un lavoro occasionale, che era di drenare un coltivo cavando certi fossi, ci incontrammo con le vanghe in molti frammenti di terracotta. Già tempo addietro quando era stato necessario riconoscere i termini del mio oliveto […] avevo notato nel solco smosso un coccio rossastro […]. Adesso i frammenti erano molti […] anche i colori erano variati> [2].

Lo scrittore parlò di questi ritrovamenti con alcuni abitanti di Palinuro (paese che nel libro è chiamato “Licudi”) i quali con noncuranza gli fecero presente, che specialmente sopra la collina di San Paolo (figura 5) nel corso di lavori agricoli, di sterro e di sbancamento spesso si erano rinvenuti parti di anfore e vasi di ceramica dipinte e anche delle statuine di terracotta. Queste ultime, comunemente chiamate “mocci”, erano di solito regalate ai bimbi per giocare (figura 6).

Egli, appassionato e cultore di storia antica, percepì che questi oggetti potevano essere la testimonianza della presenza sul promontorio di Palinuro, in tempi arcaici, di un insediamento antropico. Pertanto, al fine di confermare questa sua ipotesi, decise di eseguire nella zona di San Paolo, a monte dell’abitato del borgo, un sondaggio: una forma primitiva di scavo archeologico.

Questa sua esperienza è così descritta: <Ma io una mattina […], scelto il bracciante Biasino, […], me ne andai con lui nella parte del colle che direttamente soprastava Licudi (località San Paolo, figura 5, n. d. A.), per incontrarmi con il passato. [   ]. La zappa aveva appena scalfito il fianco di un oggettino, […] piano piano liberammo un vasetto a forma di pera […]. Quella era una cosa molto antica simile alle tante vedute nei musei di Siracusa o a Valle Giulia […].

Gli sterratori lavorarono due giorni isolando una fossa quadrata, […], rinvenendo una grande quantità di vasellame pressoché intatto e disposto in modo da farci supporre che si trattasse del deposito (tomba, n. d. A.) di almeno quattro persone; probabilmente guerrieri […]. Tolti gli oggetti, le ricoprimmo senza toccarle (le ossa, n. d. A.) >[2].

Lo scrittore nel rendersi conto che aveva scoperto la “Necropoli dell’Arcaica Palinuro”, scrive: <Era dunque questa mia una scoperta per modo di dire. Tutti i licudesi, […], conoscevano dall’immemorabile che al di sopra degli oliveti c’era la necropoli: che soltanto chiamavano “le sepolture vecchie”, per distinguerle dalle più o meno recenti scavate nella terra santa del cimitero di San Giovanni (nel libro nome dato a Centola, n. d. A.)>.

Egli comprende che l’esistenza di questa necropoli debba essere convalidata da un’ampia e ufficiale campagna di scavi condotta da qualche Sovrintendenza ai Beni Archeologici. Inoltre lo stesso intuisce che la scoperta opportunamente promossa e divulgata, avrebbe potuto rappresentare per il povero borgo di Licudi un’opportunità per rompere l’isolamento e farsi conoscere a livello nazionale e internazionale; forse anche l’occasione per l’avvio di uno sviluppo sociale economico e turistico del territorio. Cioè l’avvio di un turismo “Storico – Culturale” capace di portare, a lungo andare, prosperità e benessere in un territorio di una bellezza naturale unica.

Andrea Giovene di questa sua ipotesi non può non parlarne con “don Calì”, il Galantuomo e Signore di Licudi (nella realtà, Antonio Rinaldi detto il “Il Duegno” cioè il Re di Palinuro (figura 7) che apparteneva alla famiglia i cui membri avevano amministrato i beni dei feudi dei Pappacoda, principi di Centola e marchesi di Pisciotta, Palinuro e Molpa, che poi con la dissoluzione del feudo, ne avevano acquisita gran parte dell’eredità). In particolare nel colloquio evidenzia che <se portiamo qui quelli del museo, se facciamo scoprire a loro stessi le altre (reperti archeologici e tombe, n. d. A.), dove già sappiamo che stanno, passa la voce, vengono i giornalisti, si muove il ministero, arriva il turismo; si sveglia ogni cosa […]> [2].

Don Calì, dando segno d’intelligenza e perspicacia, comprende l’importanza della congettura formulata e concede il suo beneplacito; <Fate voi, signor Sansevero! Siamo nelle vostre mani> [2].

Andrea Giovene, come si evince dal suo scritto, si attivò immediatamente; si mise in contatto con amici e colleghi, scrisse innumerevoli lettere ai direttori di musei e sovrintendenze nelle quali evidenziava che erano stati trovati importanti reperti archeologici sulla collina di San Paolo di Palinuro. Nel suo libro racconta dei numerosi viaggi intrapresi per incontrare personalità nel campo dei Beni Culturali di varie province con particolare riguardo a quelli che avevano autorità e competenze nel settore degli scavi archeologici. Importanti furono gli incontri e i contatti che egli ebbe con il Direttore del Museo Archeologico di Taranto (il dott. Mollo) nel corso dei quali lo invitava a Palinuro per prendere visione degli oggetti già recuperati, perorando l’avvio di una sistematica e appropriata campagna di scavi condotta da archeologi professionisti.

Un giorno, senza preavviso, dopo l’Epifania del 1938, i licudesi (gli abitanti di Palinuro) videro arrivare il dott. Mollo, che fu ospitato nella casa dello scrittore. Il Direttore, presa visione degli oggetti che il Giovene aveva recuperato nel corso dello scavo sulla collina di San Paolo e che conservava accuratamente nella grande sala della sua casa, rimase molto colpito dalla loro fattura e, da esperto, ne comprese il valore storico e archeologico. Pertanto organizzò e guidò egli stesso uno scavo nella località dove questi reperti erano stati ritrovati.

Il professore, sempre quanto raccontato nel libro, aiutato da numerosi licudesi mise in poche ore alla luce <una quantità prodigiosa di vasi, quasi tutti figurati e alcuni di primaria bellezza […]. Il Mollo rientrò a casa […] tra le braccia tenendo una sporta piena di tesoro […]. La grande sala, dove era, il camino delle pietre, fu eletta a deposito di quelle meraviglie […]> [1]. Nei giorni successivi da Taranto giunsero altri assistenti del dott. Mollo e dopo alcuni giorni di attività il gruppo di esperti, messa in sicurezza la zona degli scavi, portando via tutti gli oggetti recuperati, tornò a Taranto non senza avere ufficializzato presso le competenti autorità quanto da loro trovato.

Lo scrittore con un certo dispiacere pone l’accento sul fatto che nel lasciare Palinuro il Direttore <ritenne di non farmi giungere neppur un cenno formale di ringraziamento> [2].

Lo studioso, appena ritornato a Taranto, impegnò i suoi collaboratori a restaurare i manufatti repertati studiandone le caratteristiche e l’origine. I risultati gli confermarono che gli oggetti ritrovati fossero parte di una necropoli appartenente a un insediamento antropico, sul promontorio di Palinuro, di età arcaica. Poi, si apprende dal libro, che lo stesso Direttore presentò sull’argomento una Monografia, a suo nome, prima alla Società Archeologica Romana e poi a un convegno in Germania, cui fece seguito una conferenza stampa. La notizia di questa scoperta fu diramata alle agenzie di tutto il mondo < […] i giornali la pubblicarono ritualmente da Oslo a Chicago: il “lancio di Licudi era fatto”> [2].

Andrea Giovene aveva raggiunto il suo scopo; anche se, non può fare a meno, seppure con grande eleganza, di lasciare trasparire il suo rammarico nel rilevare come il “famoso professore” in nessuna occasione, sia a parole sia per iscritto, lo abbia menzionato o ringraziato per il ruolo avuto in questa importante scoperta.

“Giuliano di Sansevero”, da vero aristocratico, non fece nulla per reclamare a se la “Scoperta della Necropoli della Palinuro Arcaica”.

Quanto raccontato da Andrea Giovene nel suo libro circa la scoperta della necropoli di Palinuro non sembra essere incongruente con quanto riportato sull’argomento nella letteratura scientifica. Da una recente pubblicazione di A. Cocorullo [5, 6] si ricava che la prima vera indagine archeologica sulla collina di San Paolo, località “Tempa della Guardia” (figura 8), condotta con appropriate e rigorose metodiche, sia stata eseguita nel luglio del 1939 dall’allora direttore del Museo archeologico Provinciale di Salerno, Venturino Panebianco. Nella necropoli furono ritrovate 17 tombe a inumazione. <I reperti solo in minima parte sono esposti nel Museo Archeologico Provinciale di Salerno e nel Museo della Lucania Occidentale di Padula. Quelli non esposti sono conservati nei depositi della Certosa di Padula> [5, 6].

Nella figura 9 è mostrata la ricomposizione degli oggetti di una delle tombe a inumazione scoperte dal Panebianco [5, 6].

Le ricerche archeologiche sul promontorio di Palinuro riprendono dopo la seconda guerra mondiale con gli scavi condotti da Pellegrino Sestieri, che in una sua pubblicazione del 1948 scrisse: <Pertanto, sia pure per convenzione, possiamo considerare Enotri, o discendenti di questi, gli abitanti indigeni di Palinuro, e possiamo proporre che la ceramica geometrica che vi è stata rinvenuta sia classificata come Enotria. Per il momento, in base ai materiali attici e ionici trovati nelle tombe, possiamo datare questa nuova classe ceramica che si presenta alla nostra attenzione al periodo 530 – 20 a. C. > [7].

Da ricordare gli scavi condotti negli anni 1956 – 58 da archeologi dell’università di Heidelberg diretti da R. Naumann e B. Neutsch e quelli di E. Greco nel 1970 [5, 6].

Il fatto che i reperti siano riconducibili tutti a un relativamente breve periodo storico (fine del V sec. a. C.) ha portato gli studiosi a formulare l’ipotesi che gli insediamenti antropici sul promontorio di Palinuro e nella zona della valle e foce del Lambro e della collina di Molpa siano stati totalmente distrutti dai Velini con l’appoggio dei Reggini, dopo la caduta di Sibari per opera della città di Crotone [8]. A Velia faceva comodo potere prendere possesso degli approdi a ovest (propriamente detto “Porto”) e a est (porto di Molpa) del promontorio di Palinuro e controllare altresì le vie di comunicazione verso l’interno, che sfruttavano le valli dei fiumi Lambro e Mingardo [9, 10].

Va rilevato che oggi solo una minima parte degli oggetti trovati nel corso degli scavi è in esposizione in un embrione di museo, chiamato “Antiquarium”, situato in località Ficocella a Palinuro (figure 10 e 11). Le fotografie di alcuni dei reperti esposti sono mostrate nelle figure 12 e 13. Purtroppo gli scavi da molti anni sono interrotti; inoltre l’area interessata è scarsamente presidiata, per non dire abbandonata, suscettibile quindi di scavi predatori (figura 14).

Sicuramente Andrea Giovene di Girasole, all’epoca della scoperta dell’antica Necropoli, sognava per Palinuro un “Museo Archeologico” dove tutti i reperti, opportunamente catalogati e conservati, fossero esposti in maniera fruibile per turisti e studiosi.

E’ probabile, ma questo è forse solo nei pensieri dello scrivente, che egli auspicasse anche l’istituzione di un “Centro Studi di Archeologia” mirato ad approfondire la storia delle civiltà che hanno popolato il promontorio di Palinuro e il territorio che include il corso finale del fiume Lambro e quello della collina della Molpa fino alla foce del Mingardo.

E’ un sogno! Ci auguriamo però che un giorno, con l’avvento di una nuova classe dirigente, lungimirante, colta e saggia, questo sogno possa realizzarsi, certi di interpretare il pensiero di colui il quale fu lo scopritore della necropoli e che ha fortemente amato la Palinuro dei contadini e dei pescatori di un tempo oramai passato.

RIFERIMENTI

  1. http://www.nobili-napoletani.it/Giovene.htm.
  2. A. Giovene,<L’autobiografia di Giuliano di Sansevero>, Rizzoli Editore, Milano (1967), libro terzo.
  3. E. Corsi, 28 novembre 2012. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/11/28/chi-era-andrea-giovene.html
  4. http://www.elliotedizioni.com/prodotto/lautobiografia-di-giuliano-di-sansevero/
  5. A. Cocorullo, <Palinuro. Cultura enotria e simposio negli Scavi provinciali (1939)>, pubblicato negli atti del convegno, “Il golfo di Policastro tra Enotri e Lucani” (Tortora, giugno 2016), curati da F. Mollo e GF. La Torre. Rubbettino Editore (2018).
  6.  Cocorullo, <Palinuro tra mare e terra. Documentazione mitica ed evidenze archeologiche>, in “Héros fondateurs et identités communautaires dans l’Antiquité entre mythe, rite et politique”, a cura di M. P. Castiglioni, e al. Quaderni di Otium-3, Morlacchi Editore, U.P. (2018)
  7. P. C. Sestieri,<Necropoli arcaica di Palinuro>, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d’Arte, pp. 339-345 (1948).
  8. L. Leuzzi,<Il mito di Palinuro>, Cronache Cilentane, anno XXXVII, N. 9/2020.
  9. E. Martuscelli in <Gli edifici storici del Comune di Centola>, AA. VV. Testo a cura di E. Martuscelli, Tipografia E. Albano, Napoli (2020).
  10. F. Barra, <Storia di un territorio>, Terebinto Edizioni, Avellino (2017).

Testo di Ezio Martuscelli, rivisitato e con l’aggiunta d’immagini rispetto a quello pubblicato sulla rivista <Cronache cilentane>, novembre – dicembre 2020, pagg. 8 – 9, ambito rubrica “Magis Amica Veritas”, di Giuseppe Palladino.

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *