Lo scrittore Andrea Giovene racconta il pellegrinaggio dei fedeli di Palinuro al “Sacro Monte di Novi Velia” (Anni ‘30 – ‘40)
Lo scrittore napoletano Andrea Giovene dei duchi di Girasole (Napoli, 1904; Sant’Agata dei Goti, 1995), membro di una famiglia di antica nobiltà, scrisse un’opera narrativa, in cinque volumi, intitolata “L’Autobiografia di Giuliano di Sansevero” (figura 1). Di fatto è un racconto dei principali eventi che hanno caratterizzato la sua intricata vita trascorsa in luoghi diversi.
Il terzo dei cinque libri (figura 1), l’autore l’ha dedicato a descrivere quella che erano, intorno agli anni “30 – “50 del secolo scorso, i costumi e le tradizioni della gente di Palinuro (nel libro chiamato “Licudi”), all’epoca un piccolo, isolato e povero borgo di contadini e pescatori del basso Cilento, in Provincia di Salerno.
Lo scrittore, affascinato dalla bellezza inviolata del paesaggio, e dalla genuinità della gente che vi viveva, acquistò un terreno e vi costruì una casa, immersa tra gli ulivi, a valle di quella che era la strada che portava a Centola; l’unica via, all’epoca, che collegava Palinuro con il mondo circostante (figura 2).
Nel suo libro, pubblicato dalla Rizzoli, Andrea Giovene dedica un ampio spazio a raccontare l’esperienza da lui vissuta nel partecipare, integrato nella “Compagnia”, al pellegrinaggio che il popolo di Palinuro era solito fare, nel mese di settembre, alla Madonna del Sacro Monte, il cui santuario si trova sulla sommità del Monte Gelbison (figure 3 e 4).
Prima di riportare questo brano ci sembra interessante premettere alcuni aspetti storici e antropologici su cui si basa quest’antichissimo culto, che secondo alcuni storici risale al XIV secolo.
a)Antefatti storici/culturali circa il pellegrinaggio alla Madonna del Sacro Monte di Novi Velia
Studiosi di storia sacra del Cilento sostengono che la costruzione del santuario fosse opera dei monaci Basiliani di rito bizantino che all’epoca dei Longobardi s’insediarono nel Cilento [1, 2]. Il nome del monte sembra che derivi dall’arabo Gebel-el-son “Monte dell’Idolo”, questo porta a supporre che, probabilmente, la sua sacralità fosse già riconosciuta al tempo in cui i saraceni avevano costituito un’enclave con centro ad Agropoli (882 – 915). Un diploma di Ruggero II il Normanno attesta l’esistenza del luogo di culto alla data del 1131. Il santuario dopo varie modifiche strutturali e ampliamenti, nel 1323 passò sotto la giurisdizione dei monaci dell’Ordine dei Celestini. In seguito nel sec. XVIII, afferì al vescovo di Capaccio; dal 1807 è sotto la giurisdizione del vescovo di Vallo della Lucania [1, 2].
Nei paesi del Cilento è prassi consolidata nei secoli che le “Compagnie” compiano il pellegrinaggio al Sacro Monte minimo una volta l’anno [1].
Alcune peculiarità di questi pellegrinaggi sono così messe in risalto dallo storico del Cilento, Amedeo La Greca:
<La compagnia, in testa la cénta e lo stennàrdo ra Marònna (stendardo che si usa solo in quest’occasione), si ricompone al Calvario, un grande cumulo di pietre trasportate per penitenza dai pellegrini che segna il limite estremo dello
spazio sacro; attorno ad esso i pellegrini girano tre volte, prima di iniziare l’ultimo tratto, scandito dalle edicole della Via Crucis […]. Giunti alla cappella, fanno tre volte il giro attorno all’edificio, […] sostano poi sul sagrato ove il rettore del santuario […] benedice la cénta; infine varcano la soglia, molti strisciano in ginocchio fino all’altare. Dopo la messa, salgono per una gradinata dietro l’altare fino a raggiungere la statua della Madonna e ne baciano il manto. E’ uso poi recarsi all’estremità del piazzale antistante la cappella e gettare delle monetine sulla Ciamba re cavallo, un grosso monolite, distante qualche metro dal costone, come buono auspicio per ritornare al santuario l’anno successivo (figura 5)> [3].
La statua lignea della Madonna del Sacro Monte (figura 6), si caratterizza per delle sembianze che si rifanno all’iconografia greca – bizantina importata nel Cilento proprio dai monaci Basiliani.
Renata Ricci circa i lineamenti della Madonna del Sacro Monte, scrive:
< […] bisogna perciò concludere che il santuario esisteva già intorno all’anno mille e che esso dovette essere fondato dai monaci Italo – greci che dalla Sicilia affluirono, numerosi nella zona. Ad avvalorare questa tesi è proprio la statua lignea della Madonna, nelle cui fattezze che sono classiche dell’iconografia bizantina; il viso bruno allungato, il collo alto, gli occhi azzurri e il naso alla greca. La Madonna, poi, è seduta con il bambino sul braccio sinistro (diversamente dalle Madonne cristiane) […] (figura 6)>[4].
Per Luigi Leuzzi, <Il culto della Madonna affonda le sue origini in un passato arcano denso di significati e simbolismi reconditi e di un’identità che si colloca pienamente nello spirito e nell’anima della gente del Cilento e che ne investe alcuni luoghi peculiari […]. La deposizione rituale del simulacro nel santuario rimanda alla deposizione conservativa dei chicchi di grano prima della semina primaverile e quindi si concilia interamente con il simbolismo della cultura agro-pastorale che abita il territorio cilentano> [5].
Immagini di “Compagnie” che salgono in pellegrinaggio al Sacro Monte, con bandiere, stendardi, “cente” e doni da offrire alla Madonna sono mostrate nelle figure 7, 8 e 9 [4, 6].
Una delle caratteristiche dei pellegrinaggi al Sacro Monte erano/sono le “Cente” che le donne erano solite portare in testa fino all’altare della madonna dove erano benedette (figura 10).
Amedeo La Greca a proposito delle “cente” (portate sempre da donne), proprie della cultura contadina, scrive: <Immutabile da secoli è rimasto il rito delle cénte […] doni votivi di ceri – di solito sono cento candele – addobbati di nastri colorati che li tengono insieme a creare la forma di una barca, di un castello o di un uovo, a seconda della tradizione dei singoli paesi […] cénte”, dal punto di vista etimologico potrebbe essere riferito al “latino “inceptus”, cioè “che cammina avanti”; infatti, sono sempre le portatrici di cénte che aprono le processioni o i pellegrinaggi [8].
Giuseppe Conte, sempre a proposito del culto espresso dalle cénte o cinte scrive: <Questa forma espressiva di devozione, va ricercata in tempi assai lontani e non deve limitarsi a una visione prettamente “cristiana” ma sconfinare oltre, per addentrarsi in epoche più primitive. Ai tempi dell’antica Grecia prima, e nel mondo della cultura romana poi, l’affidamento agli dei era spesso elargito tramite “doni simbolici”, classificabili come perfetti antenati delle odierne “cénte” […] > [9]
Riferendosi al fatto che le cente sono sempre portate sul capo dalle donne, Giuseppe Conte, attribuisce al termine “cénta” e ancor più “cinta”, il significato di casta o pura. <Secondo quest’accezione, il legame etimologico denuncia l’evidente intendo di aver significato di “nubile” in senso più ampio; in questi termini corrispondeva al rito di affidarsi alla Madonna o ai Santi con l’augurio di rendersi madri e mogli> [9].
Altri studiosi attribuiscono al culto delle cénte, il valore simbolico di penitenza o di ringraziamento per una grazia ricevuta oppure espressione di una richiesta di una nuova grazia.
La configurazione e la strutturazione delle cénte varia da località a località e spesso è legata alla tipologia del voto di cui esse sono espressione.
Le cénte a forma di barca dovrebbero essere tipiche di paesi della fascia costiera, mentre quelle aventi una struttura a torre o a uovo sono più presenti in centri abitati dell’interno (figura 10).
Nei paesi del Cilento, inclusa Centola, Palinuro e le altre frazioni del Comune, vigeva l’usanza/tradizione, tra maggio e ottobre, di fare a piedi il pellegrinaggio al monte Gelbison per rendere omaggio alla Madonna del Sacro Monte. I fedeli, organizzati in “Compagnie”, partivano cantando dai loro paesi con in testa le donne che portavano le cinte (cente).
b) Il pellegrinaggio al “sacro monte” dei palinuresi (anni “30 – 40) raccontato dallo scrittore, Andrea Giovene
IL romanziere napoletano Andrea Giovene incuriosito e studioso delle tradizioni di Palinuro partecipò a un pellegrinaggio, effettuato, probabilmente prima della seconda guerra mondiale, dalla “Cumpagnia” di palinuresi, al Sacro Monte di Novi Velia.
Qui di seguito è riportato, quasi integralmente, il racconto, ricco di osservazioni di natura antropologica, naturalistica e sociale, di questa esperienza; lo scritto rappresenta una delle più interessanti descrizioni di quell’antica costumanza dei popoli del cilento.
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Testo estratto dal romanzo di Andrea Giovene di Girasole, circa il pellegrinaggio dei palinuresi al Sacro Monte
< […]. Visitando, come si è visto, assai debolmente la chiesa per il corso dell’anno, i licudesi (nel suo libro l’autore usa per Palinuro il nome di Licudi, quindi “licudesi” sta per “palinuresi), con la luna di settembre, si preparavano però a sottoporsi ad uno sforzo straordinario: il pellegrinaggio. Non erano guidati da un sacerdote, ma da uno tra essi, scelto volta per volta, e sempre con motivi non penetrabili; vi partecipavano con un buon terzo della popolazione presente; e tra le innumeri e venerabili immagini di Maria ne presceglievano, per visitarla, una quasi nota a essi soli. Così che quel rito si andasse svolgendo in luoghi talmente reconditi e verso un monte a tal segno inaccesso da apparire un incontro tutto particolare del piccolo popolo col cielo. “Fate bene a voler venire con noi sopra il Monte! Ma dovete dare il nome al capo della “Compagnia”, Genuario Pizzo, il carrettiere di Licudi, l’eletto di quell’anno, mi strinse affettuosamente tutte e due le mani ricevendo, in presenza di altri, la mia domanda formale e mi chiese di appoggiare la “Compagnia” con il soccorso di un mulo, o per meglio dire, del mulo, perché non c’era che quello di Popoldo. Lo ottenni al primo cenno, in uno con il suo conducente, Baculo, lo schiavo taciturno. […].
Con un perfetto chiaro di luna partimmo, cantando.
Il monte della Potentissima, alto duemila metri e impennato ai vertici in costoni taglienti quasi da ogni lato inaccessibili, non si raggiunge sulla sua sommità che per sentieri impervi (fotografie del monte Gelbison in cima al quale si trova il santuario della Madonna di Novi Velia sono mostrate nelle figure 3 e 4). L’onda dei faggi veste l’altura, e non cede che ai piedi di quegli ultimi torrioni ferrigni: stagliati a filo del cielo, visibili fin dal largo del mare, dietro il Palanuda, come una frangia d’ombra celeste. C’è un eremita lassù, che governa il piccolo santuario; ma deve discendere verso la valle quando comincia a incupirsi l’ottobre. Allora la vergine resta sola con il suo figliolino tra le braccia, visitata soltanto dal fuoco delle folgori, che segnano lo strapiombo di lacerazioni ciclopiche e fanno nel vello della faggeta profondi imbuti cinerini. E il paese, quando il fragore del tuono scuote la marina, avverte la solitudine della Madre. La visita non è soltanto un chiedere o rendere grazie; è la conferma di un patto familiare; è, prima delle notti dell’inverno, un commiato filiale. Con parole affettuose arrivando e di rimpianto nel ripartire, intimamente la salutano i suoi devoti.
<<Ce ne turnammo a chesta via! Statte bbona, Madonna mia!>>
Il pellegrinaggio, così come lo compivano i licudesi, era per la sua durezza quasi al limite delle possibilità di un uomo. Oltre l’ascensione alla montagna santa, già pesantissima in sé, esso esigeva due marce di circa dieci ore ciascuna, e tre notti al’aperto. Vi erano nella compagnia tante donne e uomini anziani; e bambinelle che non si sarebbero supposte capaci di uno sforzo così grande. La massima parte di loro andava poi tra quei sassi, fossi d’acqua e spine, a piedi scalzi. Non mi ero mai trovato in mezzo a una folla così grande, così unita nel medesimo pensiero, e così vicina per la disposizione a una perfetta fratellanza. Il pellegrinaggio sottintende e stabilisce vincoli tenaci; e, come accade, forse, più che il caso, un istinto li annoda specialmente tra alcuni: piccoli gruppi nel gruppo. Per quanto il mulo portasse provvigioni da servire a chiunque, il Baculo si teneva vicino a me, volendomi considerare suo provvisorio padrone; e Vincenzina, come cosa attinente, non si discostava dal mulo, Ma, di là di queste minute ragioni avvertivo che la sua timidità, protetta dall’argenteo ombrore della luna, dal comune sentimento, e dalla leale purezza di quello, si distendeva e risolveva, quasi infantilmente insinuandosi sotto il riparo della mia buona intenzione. In principio avevo fatto mostra di non accorgermi di lei, temendo si ritirasse. Ora pareva aver tolto il suo partito e starsene sicura. Accolto nella “Compagnia”, avevo diritto di intenderla e volerla aiutare; ella lo sentiva; e lo accettava senza dire; così restando vicina. Intorno a noi, dall’uno all’altra vallicella, dall’uno all’altro passaggio, si propagava il fervoroso fruscio, l’intenso sussurrare dei pellegrini. Ciascuno portava la sua domanda e il suo voto e conosceva la domanda e il voto dell’altro; gli chiedeva ausilio e gliene dava insieme; ciascuno si fermava per attendere gli altri e visitarli; era da essi atteso e visitato. E, in quell’irreale paesaggio che si andava a volta a volta scoprendo sotto il pacato chiarore: nei suoi golfi tenebrosi, le sue illimitate prospettive di silenzio, il luccichio delle acque, e nel trascorrere di tutte quelle vite umane nel seno cupo e dolcissimo della notte, pareva a me di passare dentro un sogno alto e felice. Per rianimare l’ardore e raccogliere la gente che la lunghezza e la difficoltà del cammino disperdevano per vari sentieri, ogni tanto le donne alzavano il canto. Cantavo, con quelle. Il capo, intanto, ora fermava la “Compagnia” per riconoscerla e numerarla, ora andava cercandola come il pastore fedele fa col suo gregge. Quindi incoraggiava gli incerti, riconosceva le strade, graduava le soste. Dall’averla guidata senza intralci o ritardi, dall’averla assistita con amore e saggezza, perché questo era il carico dell’eletto, sarebbe venuto a lui onore per tutto l’anno. Genuario pareva infaticabile; egli si era già accollato più di un peso, liberandone gli altri, ma la sua gamba di ferro non riposava. Spesso era venuto anche a me, che come neofita, meritavo cure maggiori; ma cercavo di mantenermi alla pari; e, dimenticando la fatica nei miei stessi pensieri, potevo riuscirvi.
Questo viaggio fantomatico, nel clima di un altro pianeta, durò tutta la notte e, con brevi riposi, molta parte del giorno seguente. Al calare del sole la “Compagnia” finalmente accampò sulle prime balze del Monte. Si accesero i fuochi come fanno i pastori, si ripartirono le provviste, si tacque. Immersi in un riposo profondo i licudesi dormivano sognando l’Incontro. Il mio sguardo errava dall’una all’altra di quelle figure familiari, chiuse nei loro semplici panni, affidate nell’infantile atteggiamento del loro sonno, aspetti di una migrazione antichissima. Il tempo che era trascorso da ancora prima del Diluvio, si riassorbiva, annullandosi. Tornava l’età lontana prima che gli uomini conoscessero la ruota, ma quando conoscevano Dio; e quando chiamandosi solamente uomini non immaginavano colloquio che con l’umanità; né lingua che fosse stata scritta. Genuario Pizzo venne a distendersi accanto a me; egli pensava che fosse ancora suo dovere vegliare sul riposo degli altri. <<Avete camminato bene! Siete più forte di noi! Noi siamo abituati. Ma dormite, riposatevi; c’è ancora troppo da faticare!>> […]. Egli arrotolava una sigaretta dentro una foglia di granturco, con un poco di tabacco coltivato nell’orto e conciato alla buona. Il suo volto era magro e asciutto; i capelli nerissimi; la barba spinosa. Gli occhi molto lucidi, e le pupille tanto grandi che riempivano quasi tutto il globo; ma in quel poco di bianco appariva il riflesso giallastro della malaria. L’espressione di quello sguardo era tuttavia di una singolare riflessione e pazienza. Pareva che egli avesse accettato una vita così dura poiché ne aveva compreso il senso. <<Appena quelle quattro stelle toccano il mare, noi cominciamo a salire. Se il sole ci “arriva” troppo presto, la “Compagnia” patisce. Dormite, don Giuli! E’ tardi.>>. Mi ravvolsi nella coperta e tra lo spiraglio delle pieghe vedevo i bagliori del fuoco attenuarsi, o era forse il sonno che mi vinceva. […] Prima dell’alba, come aveva detto Genuario, la “Compagnia” si preparò ad affrontare l’erta. <<Sul Monte>> mi disse semplicemente Vincenzina avvolgendo con cura la mia coperta e come continuando un discorso interrotto <<né uomini né donne devono avere pensieri cattivi. L’Immacolata sta sopra i faggi; e chi la offende sotto i suoi occhi è condannato.>> Sull’aspra salita si unì a noi l’Angiolina, la portatrice di acqua della locanda. Questa donna, di un pallore quasi febbrile ma tornita e robusta, aveva il marito nel Sud America da tre o quattro anni. […] Prima che il sole la ferisse, la “Compagnia” raggiunse la profonda foresta di faggi che sottostava al culmine; ma la vidi allora improvvisamente disperdersi verso sentieri remoti, divisa per famiglie, piccoli gruppi, due amiche, una persona sola. La montagna santa irraggiava le sue virtù taumaturgiche sopra luoghi particolari: un tal macigno sanava le ulcere; quella grotta, le cefalee; una acqua sorgiva preservava dalle doglie e dai rischi del parto. Segreti che non bisognava sorprendere, se posseduti da un altro, ma che potevano essere rivelati e donati. E i licudesi affettuosamente se li scambiavano, accompagnandosi a vicenda verso quei rimedii o balsami prodigiosi; e in tal modo pubblicamente confessandosi le reciproche pene, le piaghe, gli eventi, i rimorsi. Vedevo i fratelli del mastro girare tristemente, più volte, intorno a una rupe tenebrosa sommersa dal capelvenere: temevano e scongiuravano la vendetta di Tredici. Vedevo Angiolina raccogliere da una balza scoscesa l’erba che doveva assicurarle la fedeltà del suo uomo, che forse, in quella stessa ora, travagliava per lei, nel fondo di una miniera cilentana, e immaginandola, con quelle magiche erbe tra le mani. Ma di repente mi accorsi che io, io poi non avevo niente da chiedere: che restavo solo questa volta per non saper domandare e neanche desiderare; e che mi era dato soltanto di sperare che i voti degli altri fossero accolti: che il maestro guarisse; che Vincenzina fosse felice.
L’incontro con la Vergine fu un tumulto festoso quale non avrei saputo neppure immaginare. L’Eremita stava sulla soglia tutti riconoscendo ed abbracciando; e i licudesi se lo trasferivano quasi a spintoni perché ciascuno ne avesse la sua parte. Quando la “Compagnia” si affacciò nella piccola chiesa, nido perfetto di pace, imbiancato di calce che la limpidità dell’alta atmosfera rendeva azzurrina, e la Madonna semplicissima apparve sul suo piccolo altare coperto di fiori selvaggi, mi trassi in disparte, afflitto dall’ombre che mi avevano poc’anzi attraversato la mente (una fotografia della Madonna del Monte Gelbison è riprodotta nella figura 6). Ma sotto di noi lo sterminato paese ondulava nell’arsura dei monti spogli e delle marine balenanti nel sole. Dagli Alburni alla Sila il Sud profondo e inesplorato giaceva, carico di pazienza e di tempo; intriso di pensieri e di fatica, immerso nei suoi costumi immemorabili, illuminato dalle sue fedi e dalla solenne armonia del suo vivere. In esso sentivo di abbandonarmi, smentendo cultura e ragione, chiedendogli oblio ed esaltazione; tenendo nel petto il peso del mio umano e rimettendovi me stesso. Approdo che il mio viaggio non aveva mai ancora toccato; e che poteva esserne la meta.
Il ritorno fu assai duro ma lieto. Non salii sul mulo che servì soltanto una donna dal piede piagato. Quando, esausta, la “Compagnia” si raccolse un’ultima volta prima di entrare in paese, vidi che, pur nel mezzo della notte, i lumi brillavano in tutte quante le case. I pellegrini tenevano alti i rami di faggio riportati dal Monte; il popolo intero ci veniva incontro a sua volta cantando, abbracciando i suoi, trasportandosi con essi verso i focolari nuovamente santificati. Quelli della marina accolsero noi. E ancora restammo nel tiepido buio narrando, guardandolo. Finché quelle quattro stelle, che Genuario mi aveva indicate dalla montagna, toccarono il mare>.
c) Conclusioni
I pellegrinaggi, specialmente nei tempi passati, hanno avuto anche la funzione di favorire lo scambio d’idee e conoscenze tra fedeli che provenivano da paesi a volte molto lontani tra loro e spesso con basi culturali diverse. Infatti, sul piazzale del Sacro Monte sostavano e riposavano, prima del ritorno, compagnie che venivano oltre che dai centri del Cilento anche da paesi della Basilicata, del salernitano, della Puglia e della Calabria.
<Il pellegrinaggio al santuario della Madonna, in cima al Sacro Monte Gelbison, ha costituito un forte richiamo religioso e culturale per tanti pellegrini, provenienti dalle regioni circostanti, concorrendo a formare, nel corso dei secoli, un grande e spontaneo teatro di incontri, in cui popoli e culture diverse, attraverso la musica, il canto, i sapori, il linguaggio, la preghiera stabilivano contatti e intessevano scambi e relazioni, creando una stratificazione culturale interregionale> [3].
Oggi questi pellegrinaggi, che si fanno in pullman o in macchina, hanno purtroppo perduto gran parte del loro fascino.
Immagini, relative a tempi recenti, di pellegrini palinuresi al Sacro Monte di Novi Velia, riprese dal volume pubblicato da Antonio Rinaldi “Terra del Mito, un secolo di immagini per Palinuro” sono mostrate nelle figure 11 – 13 [10].
A Centola il pellegrinaggio al Sacro Monte è collegato alla festa di San Lazzaro che si tiene la terza domenica di settembre. La Compagnia al ritorno dal monte Gelbison fa sosta innanzi alla chiesa dell’antico convento seicentesco di san Francesco, preleva la statua di San Lazzaro, ivi custodita, e in processione la trasporta nella chiesa parrocchiale di San Nicola di Mira al centro del paese in piazza Generale Pietro Imbriaco, comunemente chiamata la piazza vecchia (figura 14).
La statua di san Lazzaro ritornerà nella chiesa del convento, sempre portata in processione, a chiusura delle celebrazioni liturgiche dedicate al santo.
Una fotografia, messa a disposizione da Sara La Massa e Lazzaro Serva, dello stendardo della Compagnia di Centola è mostrata nella figura 15.
del Monte Sacro, inizio secolo XX – fine XIX,
da Carmelo Fusco
Un’antica foto che mostra i pellegrini di Centola sulla cima del Monte Sacro, inizio secolo XX – fine XIX, è riprodotta nella figura 16.
di Novi Velia per onorare la Madonna, settembre 1936.
Da Sx,: Carlo Rinaldi, la moglie Ida Marchianò,
Maria Rinaldi, Antonio Rinaldi
(foto da Ida Rinaldi, figlia di Achille).
Anche le famiglie dei galantuomini di Centola erano solite salire al sacro Monte per onorare la Madonna di Novi Velia. In questo caso il pellegrinaggio avveniva in carrozza/macchina con cocchieri/chauffeur e con donne al seguito per il trasporto delle vettovaglie. La fotografia di figura 17 testimonia quest’avvenimento. Sono mostrati i membri di parte della famiglia Rinaldi che compie il pellegrinaggio a settembre 1936.
Quest’ultima immagine porta alla conclusione che il culto della Madonna di Novi Velia attraversava tutte le classi sociali del Cilento, anche se i modi secondo cui si compievano i pellegrinaggi non erano uguali e forse anche la religiosità alla loro base esprimeva impulsi e sentimenti di diversa natura.
RIFERIMENTI
- http://cilentoitalia.altervista.org/novi-velia-la-madonna-del-sacro-monte-tradizione-antichissima/
- M. L. Amendola, E. Martuscelli, <Palinuro tradizioni e costumi [1900 – 1960]>, Edito dall’Associazione Progetto Centola,Tipografia Enzo Albano, Napoli, (2017).
- A. La Greca, <Guida del Cilento 2, Il Folklore>, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, (1990).
- R. Ricci, <Il mio Cilento>, C.P.C. per il Cilento (2004).
- L. Leuzzi, <Il Cilento:la grande Madre; iterazioni simboliche e magico rituali nella Terra di Maria>, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2014.
- http://motoinfuoristrada.forumcommunity.net/?t=44157261
- https://www.eleaml.org/sud/atlantide/at_centa.html
- A. La Greca, <I pellegrinaggi>, http://www.cilentocultura.it/cultura/feste3.htm.
- G. Conte, <Cilento: “Cénte” e “Cinte”>, 11, 10, 2011.
<Terra del Mito, un secolo di immagini per Palinuro>, a cura di A. Rinaldi, Edizioni Areablu, Cava dei Tirreni (2018).