Storia di un feudo del Cilento e del suo signore, Camillo Porzio, autore della “Congiura dei baroni” tra avventure e disavventure

Parte prima – Camillo Porzio: cenni biografici

Simone Porzio (1496 † 1554; illustre medico e filosofo napoletano; fu anche docente presso l’università di Pisa) sposò nel 1525 Porzia d’Anna, la cui nobile famiglia era parte del patriziato napoletano, ascritta al Sedile di Portanova. Dal matrimonio nacquero sette figli tra i quali Camillo fu il primo (n. ? 1525; m. ? 1580, figura 1).

Camillo Porzio studiò a Bologna, Firenze e Pisa, dove il 19 settembre 1552 si laureò “in utroque iure” (circonlocuzione latina utilizzata nelle antiche università per indicare coloro i quali si laureavano in diritto sia civile sia canonico).

Ritornò a Napoli anche per assistere il padre che gravemente malato morì nel 1554. Come il più anziano dei figli, assunse il ruolo di capofamiglia. A lui spettò il compito/dovere di curare e amministrare il cospicuo patrimonio familiare. Inoltre egli esercitò con successo la professione di legale; era considerato uno dei più noti e ricercati avvocati della città [1, 2, 3].

La sorella di Camillo, Aurelia, si maritò con Marino Rossi del Barbazzale, dottore in legge e Signore di Centola. Gli stemmi nobiliari delle famiglie d’Anna e Rossi del Barbazzale sono riprodotti nella figura 2 [4].

Nel 1559 Porzio compra il feudo di Centola, a sud del Principato Citeriore (oggi basso Cilento) con tutti i diritti feudali dell’epoca; era stato messo all’incanto dalla nobile famiglia degli Alagna. Come si scriverà in seguito quest’operazione <immobiliare, prestigiosa quanto complicata>, con risvolti poco chiari, determinò una serie di controversie sia con i passati feudatari sia tra gli eredi del Porzio. Sembra che questi contenziosi fossero causati dal fatto che la proprietà pur essendo stata acquistata con somme versate da Porzio, inspiegabilmente fosse intestata al cognato Marino Rossi [2].

Il fatto di essere, comunque, divenuto Signore di questo feudo, < assieme al suo attivo sostegno al governo vicereale ed alle amicizie altolocate, lo inserì di diritto nella “nobiltà di toga “napoletana”> [1].

Nel 1565, fu pubblicata a Roma l’opera di ricerca storica più importante di Camillo Porzio: “La Congiura dei baroni”.

Egli nel testamento, datato 1580, nominò sua erede universale Fulvia Scondito, la cui madre aveva sposato quando era restata vedova [2]. Secondo alcuni Fulvia era una sua figlia naturale.

Camillo Porzio, morì a Napoli quando era ancora Signore di Centola e di San Severino [19]. La data della sua morte, non è chiaramente accertata, comunque è riportata essere intorno al 1580 [2].

La città di Napoli ha inteso ricordare ai posteri, Camillo Porzio, dedicandogli un’importante strada nelle vicinanze del Corso Garibaldi, quartiere Arenaccia (figura 3). Il cardinale Gerolamo Seripando (Troia, Puglia, 1493; Trento 1563, figura 4; fu arcivescovo di Salerno ed elevato al rango di cardinale nel concistoro di Trento del 1561) fu il “Mentore” di Porzio sostenendolo nella sua carriera e vita sociale e incoraggiandolo a scrivere la “Congiura dei Baroni” in lingua italiana e non in latino come avrebbe desiderato fare il Porzio [3].

Parte 2 – La “Congiura dei Baroni”, Opera di Camillo Porzio.

Impatto di questa rivolta sull’assetto feudale del Cilento

e del territorio di Centola.

L’Opera di Camillo Porzio, “La Congiura dei Baroni”, fu pubblicata per la prima volta, a Roma, nel 1565 (figura 5) presso Paolo Manuzio, sovrintendente della Tipografia Vaticana. <Quando il testo venne dato alle stampe, il cardinale Seripando era morto da due anni, ma ne aveva caldeggiato a lungo la stesura e […] la pubblicazione […]. Una lettera di Seripando anteposta da Porzio al racconto […] ricordava gli inviti da lui mossi all’amico affinché si cimentasse nel racconto della guerra dei baroni e lo esortava a scrivere «l’istoria toscanamente»> [2].

Francesco Bove sulla “Congiura dei Baroni” ebbe a scrivere [5]:

<La Congiura dei Baroni è stato un movimento rivoluzionario che ebbe come protagonisti alcuni nobili del Regno di Napoli, da un lato, ed il Re Ferrante(Ferdinando I) d’Aragona (1431-1494), che fu re di Napoli dal 1458 al 1494>.

La Congiura fu ordita da alcune grandi famiglie dell’aristocrazia (i Baroni) che si opponevano alla politica del re che intendeva modernizzare lo stato sottraendo ai nobili, che possedevano grandi feudi, alcuni dei privilegi e prerogative.

Tra gli animatori della ribellione, decisa nel corso di una riunione dei nobili a Melfi nel 1485, c’erano: Antonello Sanseverino, secondo Principe di Salerno, dodicesimo conte di Marsico e signore della baronia di Cilento (figlio di Roberto, che aveva ottenuto nel 1463 il principato di Salerno per avere contribuito alla vittoria di re Ferdinando contro Giovanni d’Angiò); Pirro del Balzo, duca d’Andria e di Venosa; suo fratello Angilberto, duca di Nardò; i Caracciolo di Melfi e Francesco Coppola, conte di Sarno.

Alla ribellione parteciparono molti baroni e signori del Cilento. Tra questi si ricordano: Giovannantonio Arcamone, Conte di Policastro; Alfonso della Gonessa, signore di Campora; Marino e Pietro d’Alemanna, signori di Castelnuovo; Aniello Arcamone, barone di Rofrano [6].

L’insurrezione, anche se appoggiata dal Papa, Innocenzo VIII, non ebbe successo. Infatti, Ferrante, alleatosi con gli Sforza di Milano, fermò l’esercito del Papa, quindi catturò e processò molti dei congiurati. Alcuni aristocratici con la promessa di un’amnistia si consegnarono nelle mani del re il quale, non tenendo fede alla parola “data”, li fece mettere in prigione e giustiziare nel 1491 [6].

Antonello Sanseverino, rifugiatosi in Francia sotto la protezione di Carlo VIII, subì la confisca di tutte le proprietà [7, 8].

Con la vittoria di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, nella guerra che lo vide contrapporsi ai francesi di Luigi XII, il regno di Napoli passò sotto il controllo della corona spagnola. Il trattato di pace, stipulato nel 1504, prevedeva tra l’altro <che i baroni i quali avevano subito persecuzione da parte degli aragonesi, fossero reintegrati nei loro beni. Così avvenne che il figlio di Antonello, Roberto, all’età di vent’anni, rientrasse in possesso di tutti i beni di famiglia (1506)> [6].

La grande baronia di Cilento passò poi al figlio di Roberto, Ferrante (ultimo barone ribelle), quarto principe di Salerno, che per una serie di ragioni sia di natura politica sia religiose subì l’ostracismo da parte dei governanti spagnoli. Questi contrasti raggiunsero l’apice quando il viceré don Pedro di Toledo minacciò di introdurre a Napoli l’Inquisizione e di affermare l’assolutismo regio a discapito dei grandi feudatari [9]. Tutto ciò scatenò una vera e propria rivolta che vide il popolo e la nobiltà schierati contro il viceré.

Nel 1552 a fronte di un tentativo da parte di Ferrante Sanseverino di organizzare una lega antispagnola, con Venezia e Francia, il viceré lo proclamò ribelle sequestrandone tutti i beni, tra cui la baronia di Cilento; <facendone sancire la condanna a morte da Consiglio collaterale> [9].

Ferrante morì, in esilio, ad Avignone nel 1568. Con egli, non avendo avuto eredi, si estinse il ramo principale dell’antica casata normanna dei Sanseverino che tanta influenza ebbe anche nella storia del Cilento. Questa famiglia per secoli aveva rivaleggiato per opulenza e potere con le case regnanti; il loro palazzo a Napoli, poi trasformato nella Chiesa del Gesù, ne è una testimonianza ancora oggi (figura 6) [10, 11,12].

Il viceré spagnolo confiscò a Ferrante anche la Baronia di Cilento <che da almeno duecento anni aveva costituito un unico feudo e un’unica Universitas: fu smembrata e divisa in un gran numero di feudi (alcuni di piccole dimensioni, n. d. A.) che furono messi in vendita> [6].

Si andava così consolidando quel processo di dissoluzione, iniziata già nel periodo aragonese, delle grandi Baronie del Cilento sia laiche sia ecclesiastiche, formatisi in età Normanna che attraverso guerre, ribellioni e varie vicissitudini erano riuscite a sopravvivere fino alla fine del XVI secolo.

Tra le baronie laiche rientrava proprio quella di ”Cilento” (include il territorio dell’”Actus Cilenti”, con capoluogo Rocca, oggi Rocca Cilento) della quale furono signori i Sanseverino di Marsico e quella di Nobe (l’odierna Novi Velia). I confini delle varie baronie intorno all’XI – XII secolo sono messi in evidenza nella mappa in figura 7 [6, 11].

I casati che avevano dominato la scena politica sociale e finanziaria del regno di Napoli non furono più in grado di sostenere i costi dei loro immensi feudi e furono costretti a suddividerli in piccole entità più facili da vendere o dare in affitto. Si assistette quindi a continue cessioni e suddivisioni. <I passaggi feudali si realizzavano tramite vendite dirette o all’asta, quando i creditori lo pretendevano dai feudatari indebitati per mantenere un alto tenore di vita a corte> [6].

E’ In questo scenario che avvenne l’acquisto del feudo di Centola da parte del Porzio.

Alla congiura dei Baroni partecipò anche Troiano Pappacoda († 1510) i cui discendenti furono marchesi di Pisciotta e principi di Centola (vedi paragrafi seguenti) [13].

A seguito di ciò il palazzo Pappacoda (figura 8), costruito nel 1400 da Artusio Pappacoda († 1433), fu confiscato. Tornò in possesso di Troiano Pappacoda nel 1496. <Il monumentale palazzo fu edificato all’altezza delle rampe di S. Giovanni Maggiore non lontano dalla Cappella di San Giovanni dei Pappacoda. Nel periodo del Risanamento il palazzo venne abbattuto per dar corso all’allargamento della strada. Di esso si salvarono solo il bel portale marmoreo in stile durazzesco – catalano e gli stemmi nobiliari dei Durazzo e dei Colonna che vennero poi riutilizzati per abbellire il nuovo edificio universitario in via Mezzocannone n. 8; oggi è sede dei musei di mineralogia – zoologia – antropologia>. Figure 9 e 10 [13].

Parte terza – Camillo Porzio Feudatario di Centola e San Severino.

Contese con altri Baroni e dispute con le comunità locali.

Nel corso della prima guerra del Vespro tra angioini e aragonesi (iniziata a Palermo nel 1282 con la cacciata degli angioini dalla Sicilia, ebbe termine nel 1302 con la pace di Caltabellotta, che sancì la divisione del regno di Sicilia tra il regno di Trinacria, agli aragonesi e il regno di Napoli, agli angioini), Tommaso Sanseverino nominato nel 1289 «capitaneum generalem ad guerram» per la provincia di Principato fu inviato dal re angioino a prendere possesso del casale di San Severino e del suo importante castello che si ergeva a guardia della valle del Mingardo. Tommaso divenne Signore, della baronia che comprendeva le terre di San Severino, Centola, Foria e Poderia. San Severino l’antico casale di origine longobarda ne era il capoluogo; nel borgo fu eretto un importante palazzo baronale e un’imponente chiesa che per le sue dimensioni il popolo chiamava la “Cattedrale” [10].

Nel 1404 questa baronia con tutti i casali passò a Francesco Morra.

<L’antichissima famiglia napoletana dei Morra [il cui stemma è mostrato nella figura 11], godette di nobiltà a Benevento, a Salerno ove fu ascritta al Seggio di Portanova e in Napoli ove fu aggregata al Patriziato del Seggio di Capuana> [4-b)].

I Morra detennero il possesso del feudo sino ai primi decenni del XVI secolo quando iniziò il suo dissolvimento [10].

Lo smembramento incominciò nel 1538 quando Girolamo Morra vendette il feudo di San Severino ad Annibale Antonini, antenato dello storico settecentesco che scrisse “La Lucania”. A quest’atto fece seguito l’alienazione delle terre che facevano capo a Centola, Foria e Poderia [10].

<Centola fu venduta a Giovan Nicola Origlia e a Giovannantonio Ricco per conto e per nome dell’Ospedale degli Incurabili, che ne aveva ottenuto il sequestro. Passò poi a Bernardino Galeota e a Rainaldo de Alagna, finché se l’aggiudicò all’asta Marino Rossi, quale ultimo licitatore, per 4760 ducati> [10].

Quando nel 1558 – 59 il feudo di Centola, parte del Principato Citra (figure 12 e 13), fu messo all’asta a comprarlo fu Camillo Porzio ma, stranamente, esso fu intestato a Marino Rossi del Barbazzale, che come già scritto, era il cognato avendone sposata la sorella, Aurelia. Ciononostante Porzio divenne feudatario con tutti i diritti del feudo di Centola; diritti che egli esercitò fino alla sua morte.

Camillo Porzio, quale Signore di Centola e di San Severino (di quest’ultimo aveva acquistato i diritti e le rendite) ebbe a sostenere l’ostracismo da parte sia degli ex proprietari, affiliati alla famiglia dei Morra, e dei feudatari confinanti, sia dei cittadini dei casali di Centola e San Severino.

C. Monzani nell’introdurre le opere letterarie di Camillo Porzio, circa il contenzioso tra il Porzio e i precedenti padroni scrive:

<Avendo egli (il Porzio) acquistato il feudo di Centola […] appartenente a certi nobili napoletani, […] ebbe a soffrirne strane molestie, volendo questi o ch’egli l’avesse loro ridonato, o ritenuto sott’altre condizioni. Si aggiunsero in seguito le molestie dei baroni vicini; i quali, come egli stesso lasciò scritto, lo tenevano assediato per timore volesse fare stati, mentre mirava soltanto a onestamente ingrandirsi> [14].

Il Monzani, a proposito delle problematiche di cui sopra, riporta il testo di una lettera che il Porzio aveva inviato al cardinale Seripando, <tolta dal codice Seripandiano esistente nella Biblioteca Borbonica di Napoli> [14]. Con questa missiva il Porzio confutava le accuse dei suoi avversari ribadendo la correttezza delle procedure dell’acquisto della proprietà e riaffermando, inoltre, la volontà di volersi occupare in maniera diretta e consapevole della sua gestione.

Particolarmente travagliati, furono i rapporti tra Porzio e l’Università di Centola, i cui cittadini erano, forse, fomentati dai precedenti Signori.

<Il 23 gennaio 1568 veniva, infatti, presentata al viceré una dura denuncia degli “abusi” perpetrati dal Porzio> [10]

In particolare i cittadini del casale gli contestavano di avere: istaurato un monopolio privilegiato del commercio del vino; fatto divieto <ai cittadini di portare armi, anche quando si recavano in campagna e alla marina di Palinuro> [10]. Inoltre gli si confutava di essersi <insediato arbitrariamente nell’abbazia «senza tenere riguardo al culto divino, e per tal causa non vi è abate il quale ordinariamente celebri li offitij divini, et tanto essi supplicanti quanto altri convicinj non vanno colle loro donne in ditta ecclesia> [10].

In effetti, sembra che Porzio, all’epoca, si fosse ritirato a Centola per completare il secondo libro della sua “Istoria d’Italia” e pertanto usava utilizzare i locali dell’abazia di S. Maria degli Angeli come sua abitazione. Il contenzioso ebbe fine, con un accordo, mediato, tra le parti, solo nel 1569 [10]. Da rilevare che il Signore di Centola nel 1574 <prese l’affitto delle rendite del feudo di Sanseverino, ricaduto al Fisco, compresi i diritti di fida, bagliva, piazza e mulino>; anche in questo caso i cittadini del casale di San Severino gli confutarono i diritti e un’altra contesa fu aperta contro di lui [10].

Le controversie tra feudatari e comunità locali, sempre più frequenti, erano la conseguenza della frantumazione delle grandi baronie cui fece seguito una feudalità piccola, avida, prepotente e spesso incolta.

Camillo Porzio, alla sua morte, lasciò tutti i suoi beni, incluso il feudo di Centola, alla figliastra, Fulvia Capece Scondito [2].

I Capece Scondito appartenevano a un’antica famiglia napoletana <ascritta al Patriziato napoletano del Seggio di Capuana e, dopo l’abolizione dei Sedili (1800), fu iscritta nel Libro d’Oro napoletano> [15].

Lo stemma di questa famiglia, mostrato nella figura 14 – Sx, si caratterizza per <Arma: di nero al leone d’oro tenente uno scudetto d’argento al leone nero coronato d’oro> [15].

Nel 1622, Federico Pappacoda, 2° marchese di Pisciotta, acquista da Fulvia Capece Scondito, il contiguo feudo di Centola. Nel 1666, a Domenico Troiano Pappacoda, 4° marchese di Pisciotta è conferito il titolo di Principe di Centola [16]. Lo stemma di questa famiglia è riprodotto nella figura 14 – Dx [13].

Da rilevare che i membri dell’antica e nobile famiglia Pappacoda (apparteneva al Seggio “Acquario” che fu poi aggregato a quello di “Porto”) conservarono il possesso del feudo di Centola, con tutti i diritti, fino al 1806 anno in cui fu abolito dai francesi il feudalesimo [16].

Con Giovanna Pappacoda (1743 – 1809), 7° marchesa di Pisciotta, 4° principe di Centola, si estinse il ramo della famiglia di Pisciotta e Centola. Tutti i beni confluirono nella famiglia Doria d’Angri avendo Giovanna sposato nel 1762 Giovannni Carlo Doria principe d’Angri [16]. Come si evince dalla stampa, ritrovata tra le carte dell’archivio di Antonio Martuscelli, riprodotta nella figura 15 lo stemma dei Pappacoda fu inglobato in quello dei Doria d’Angri [17].

Interessante osservare come sia nello stemma della famiglia Capece Scondito sia in quello della Famiglia Pappacoda appare come elemento caratterizzante un leone (figura 14). Questo aspetto necessita di un approfondimento.

Parte Quarta – Nel 1561 Camillo Porzio, in un sanguinoso episodio, subisce l’amputazione del naso che gli viene ricostruito, con “intervento di alta chirurgia plastica”, a Tropea.

L’onorabilità pubblica e sociale di cui godeva Camillo Porzio subì un duro colpo quando, a seguito di un’avventura amorosa, nel 1561 egli fu aggredito, accoltellato e sfregiato. Non si conoscono i particolari dell’accaduto; né il luogo né le ragioni dell’aggressione.

Nel riferimento [2] si da notizia di un non chiarito episodio a seguito del quale il Signore di Centola, nel 1561, subisce l’asportazione del naso che gli fu ricostruito mediante un intervento di “chirurgia plastica”, praticata con metodiche, al tempo poco note, presso un famoso medico, Pietro Vianeo, a Tropea (Calabria).

Lo stesso Porzio, in una lettera spedita da Tropea, datata 09 luglio 1561, al Cardinale Seripando, a Trento per attendere al Concilio, lo mette al corrente delle sue disavventure raccontandogli di come <alcuni chirurgi, adottando una poco conosciuta tecnica, riuscirono a ricostruirgli il naso> [19]

La lettera è trascritta da Agostino Gervasio, Accademico Pontaniano, nella parte introduttiva del volume in cui è pubblicata, nel 1839, l’opera del Porzio, <L’istoria d’Italia nell’anno 1547 e la descrizione del Regno di Napoli> (figura 16) [19].

Riguardo a quanto sopra Gervasio scrive: <Tra le lettere del Porzio che sono nel codice Seripandiano, un’altra ve n’ha, dalla quale ci si fa palese altra singolare particolarità, e finora ignota della sua vita. Essa è che (non sappiam se per vizio morboso od altra causa naturale) egli ebbe il naso mancante e che portossi a bella posta in Tropea città della nostra ulteriore Calabria, sottoponendosi ad una operazione cerusica allora molto in voga. Sarà pregio il riportar qui l’intera lettera il che […] servirà a rinnovar la memoria di un illustre professore calabrese che conobbe l’arte di reintegrare il naso, la quale […] ora per la prima volta si viene a sapere per la descrizione del Porzio, di essere stata con successo praticata> [19].

Alcuni passi della missiva di Porzio sono qui di seguito riportati.

< Questi dì adietro ricevei una di V. S. Illma e Rev.ma alla quale se di subito non risposi ne fu cagione che mi ritrovò a lecto è certo che ne presi tanta consolazione che non solo mi diede ajuto a guarire, ma anche mi portò seco l’ultimo compimento del mio naso, il quale […] ho quasi recuperato e tanto simile al primo che da coloro che nol sapranno, difficilmente potrà essere conosciuto: è ben vero che ci ho patito grandissimi travagli; essendo stato di bisogno che mi si tagliasse duplicata carne della persa, dove si è curata per più di un mese, e poi me l’han cucita al naso, col quale mi è convenuto tener attaccato quindici dì il predetto braccio: questa è un opra incognita agli antichi ma di tanta eccellenza e tanta meraviglia ch’è gran vitupero del presente secolo che non si pubblichi e non s’impari da tutti i cirugici […]. Tropea il dì di 9 luglio 1561> [19].

Circa la tecnica operatoria impiegata per la ricostruzione del naso di Porzio Gervasio rileva che <nel secolo XV ebbero fama, quali inventori della restituzione del naso, due siciliani di nome Branca padre e figlio. […] l’arte medesima fu conosciuta ed esercitata da un’intera famiglia di chirurgi calabresi, non saprei se per proprio ritrovato, o per averla appresa dà’ siciliani Branca. […] nella città di Maida ( Calabria, n. d.A.) aveva vissuto Vincenzo Vianeo chirurgo esimio che ‘l primo escogitò l’arte di restaurar le labbra ed il naso mancanti, e Bernardino altresì nipote di Vincenzo, che erede dell’arte medesima> [19].

Inoltre egli, appurando che a Tropea, all’epoca, il figlio di Bernardino, Pietro Vianeo, esercitava <la chirurgia e l’arte del padre suo ereditata> conclude che il professore che aveva restaurato il naso di Porzio fosse stato proprio questo Pietro Vianeo [19].

Che Tropea fosse nota per la presenza di medici esperti nell’arte chirurgica di restaurazione del naso con metodi innovatori, per l’epoca, è confermato da Giov. Battista Cortese nel suo trattato, “Miscellanea medicinalia”, stampato nel 1678 a Messina, dove egli cita proprio Pietro Vianeo tra i massimi esponenti di questa “Scuola” calabrese [20].

Quanto sopra scritto trova supporto in libri e saggi sulla storia della “chirurgia plastica”, termine usato per la prima volta nel 1838 da Eduard Zeis nel suo trattato “Handbuch der plastischen Chirurgien”. J. Glicestein nel suo volume “Storia della chirurgia plastica” rivela, infatti, che tra il XV e il XVI <diversi chirurghi italiani praticarono rinoplastiche e ricostruzioni delle labbra e delle orecchie […] mutilazioni legate a duelli o ferite da guerra> [21].

Tra questi egli cita il chirurgo di Catania, Gustavo Branca, già sopra menzionato, che nel 1450 eseguiva operazioni di ricostruzione del naso utilizzando la cute della guancia. In seguito suo figlio Antonio innova la tecnica, utilizzando <la cute del braccio staccata e suturata al naso mutilato> [21].

J. Glicestein, nel confermare le notizie date dal Gervasio, scrive: <Sembra che le tecniche siciliane si siano trasmesse in Calabria, dove una famiglia, i Vianeo […], riparavano nella città di Tropea i nasi secondo la tecnica di Antonio Branca. Utilizzarono la tecnica sino all’inizio del XVI secolo> [21]. Di fatto è questa la metodica di cui scrive Porzio nella lettera inviata al cardinale Seripando usata per la ricostruzione del suo naso.

Gaspare Tagliacozzi (1545 – 1599; professore di anatomia all’università di Bologna, figura 17), antesignano della chirurgia plastica, in quello che è il primo trattato di chirurgia riparatrice, così descrive l’intervento: <  […] si svolge in sei tappe: dissezione del lembo, liberazione di tre di sei margini, preparazione del lembo, innesto del lembo e preparazione del paziente, autonomizzazione del lembo, modellamento > [22]. Dopo circa 20 giorni il lembo era sezionato. Il tutto durava dai 3 ai 5 mesi.

Il “metodo Tagliacozzi”, noto anche come “metodo italiano”, descritto nel “De curtorum chirurgia per insitionem” (vedi figura 18), ebbe grande successo; poi per circa due secoli fu abbandonato per essere riscoperto nel XIX secolo [23].

Camillo Porzio dopo avere superato con successo l’intervento di ricostruzione del naso ritorna alle sue attività completando la sua più importante opera, “la Congiura dei Baroni”.

Secondo il Gervasio, Porzio morì a Napoli quando era ancora proprietario e Signore del Feudo [19].

Da rilevare che dell’essere stato Signore di Centola, per alcuni decenni, non ci sono tracce e questo è in linea con quanto avveniva all’epoca: la maggior parte dei feudatari aveva come unica cura quella di trarre profitto dalle rendite che sulla base dei diritti feudali spettava loro.

Non un palazzo, non una chiesa o cappella, non una strada, piazza o manufatto; niente che possa ricordare chi fu il Signore di un antico feudo.

Camillo Porzio è passato come una meteora, non lasciando testimonianze che possano ricordarlo nel territorio che per tanti anni aveva governato.

E’ solo un ulteriore e triste esempio di quello che fu il feudalesimo nel profondo sud d’Italia. E’ probabile che questo fenomeno, che ebbe fine solo con l’avvento della dominazione francese, insieme con altri, abbia dato origine alla “Questione Meridionale” che ancora oggi è, purtroppo, di attualità.

RIFERIMENTI

  1. a) G. Paladino, <Porzio Camillo>, Enciclopedia Italiana (1935).

b) https://it.wikipedia.org/wiki/Camillo_Porzio

  • http://www.treccani.it/enciclopedia/camillo-porzio_(Enciclopedia_Italiana)/
  • https://it.wikipedia.org/wiki/Girolamo_Seripando
  • http://www.nobili-napoletani.it/Rossi-Barbazzale.htm

b) http://www.nobili-napoletani.it/Morra.htm,

  •  F. Bove, la “Congiura dei Baroni“: la ribellione dei nobili contro i d’Aragona. 24 luglio 2015, “http://www.salernotoday.it/cronaca/congiura-baroni-sanseverino-aragona.html
  • A. La Greca, <Storia del Cilento>, C. P. C. per il Cilento, Acciaroli, (2001).
  • http://www.treccani.it/enciclopedia/congiura-dei-baroni/
  • https://www.treccani.it/enciclopedia/ferdinando-il-cattolico-ii-re-d-aragona/
  • https://www.treccani.it/enciclopedia/ferrante-sanseverino_%28Dizionario-Biografico%29/
  •  F:Barra, <Storia di un territorio-Palinuro, Molpa, San Severino, Foria, Centola>, Il Terebinto Edizioni, Avellino (2017).
  • http://www.archiviodistatosalerno.beniculturali.it/Risorse/Rocca%

20Cilento. pdf

  1. N. della Monica,<Le grandi famiglie di Napoli>, Newton & Compton Editori, Roma (1998).
  2. http://www.nobili-napoletani.it/Pappacoda.htm
  3. <Opere di Camillo Porzio>, a cura di C. Monzani, Firenze, Le Monnier, (1846).
  4. http://www.nobili-napoletani.it/Capece-Scondito.htm
  5. M. Iannone,<Il feudo di Pisciotta tra i secoli XVII e XIX>, Giannini Editore, Napoli (2016).
  6. E. Martuscelli, archivio di famiglia.
  7. https://www.treccani.it/enciclopedia/camillo-porzio_(Dizionario-Biografico)/
  8. A. Gervasio, Vita di Camillo Porzio, in L’istoria d’Italia nell’anno 1547 e la descrizione del Regno di Napoli di Camillo Porzio, Napoli, Stamperia Tramater, (1839).
  9.  Giov. Battista Cortese “Miscellanea medicinalia”, stampato nel 1678 a Messina.
  10. J. Glicestein, <Storia della chirurgia plastica>, EMC (Elsevier Masson SAS, Paris), Tecniche chirurgiche – Chirurgia Plastica, Ricostruttiva ed Estetica, 45-002, (2008).
  11. G. Tagliacozzi, <De curtorum Chirurgia per incitionem>, Venezia, Gaspare Bindoni (1597).
  12. https://www.wikiwand.com/it/Chirurgia_antica

Ezio Martuscelli06/Aprile/ 2021

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