Il primo voto delle donne: significato e conseguenze
Il voto alle donne. Significato e conseguenze.
Testo della Conferenza tenuta da Ernesto Lupo,“Primo Presidente emerito della Corte Suprema di Cassazione”, in apertura del convegno, ” 02 giugno 1946, le donne con il loro voto, decisero la storia dell’Italia” , Centola 06 agosto 2016
Il primo voto delle donne: significato e conseguenze*
Sommario: 1. Il 70° anniversario del suffragio femminile. – 2. Il significato del suffragio femminile. – 3. Le conseguenze del voto sui lavori della Assemblea costituente. – 4. Le donne nelle istituzioni rappresentative. – 5. Considerazioni conclusive.
1.- Il 70° anniversario del suffragio femminile.
L’anniversario del primo voto delle donne in Italia (avutosi nel 1946) non è stato mai ricordato con il risalto che esso ha assunto nell’anno in corso, nella ricorrenza dei 70 anni dall’avvenimento: una mostra documentaria organizzata dalla Camera dei deputati nella Sala della Lupa ove, il 10 giugno 1946, furono proclamati i risultati del referendum per la scelta tra Monarchia e Repubblica (mostra inaugurata alla presenza del Presidente della Repubblica ed aperta sino al 31 ottobre dell’anno in corso); la traccia del tema di argomento storico dato all’esame di maturità; il tema del concorso nazionale indetto dal Ministero dell’istruzione per tutte le scuole di ogni ordine e grado; il costante ricordo della ricorrenza in tutte le occasioni in cui, attorno al 2 giugno, si è festeggiata la contemporanea nascita della Repubblica; infine, la destinazione di una Sala delle donne a Montecitorio (voluta e inaugurata, il 14 luglio 2016, dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, molto attiva per questa ricorrenza[1]), a permanente ricordo della prima partecipazione delle donne all’attività del Parlamento, 70 anni fa.
Il risalto è pienamente giustificato dalla importanza dell’avvenimento, che, con l’estensione del voto alle donne, portò a compimento in Italia il suffragio universale, fondamento della democrazia. Il voto femminile, conseguito in qualche Stato già alla fine dell’Ottocento (in Nuova Zelanda, nel 1893), è una novità che in Europa si è prodotta soprattutto nella prima metà del secolo ventesimo, nella maggior parte degli Stati dopo il primo conflitto mondiale[2] e, in parte minore, dopo il secondo conflitto[3], ma, in qualche Stato, solo in anni successivi[4]. Fuori dall’Europa vanno menzionati gli USA, in cui il XIX Emendamento alla Carta dei diritti (ratificato il 18 agosto 1920) superò la discriminazione sessuale, ma in precedenza il suffragio femminile era stato previsto in diversi Stati, a partire, nel 1869, dallo Wyoming, primo Stato al mondo a riconoscere il diritto di voto femminile[5].
In Italia il suffragio femminile fu disposto con decreto legislativo luogotenenziale 1° febbraio 1945 n.23: Estensione alle donne del diritto di voto[6]. Esso fu firmato da Umberto di Savoia, che, il 5 giugno 1944 (giorno successivo alla liberazione di Roma), era stato nominato, dal re Vittorio Emanuele III, Luogotenente del Regno. Fu una decisione del secondo Governo Bonomi, su sollecitazione di Alcide De Gasperi e di Palmiro Togliatti (rispettivamente vice-presidente del Consiglio e Ministro degli esteri), i quali si trovarono subito concordi nella decisione.
Il citato decreto n.23 prevedeva il diritto delle donne di votare, ma non anche di essere votate e quindi elette[7]. Si discute se l’omissione fu voluta ovvero fu il frutto di una mera dimenticanza[8]. Fu comunque necessario un successivo decreto luogotenenziale 10 marzo 1946 n.74 per sancire anche l’eleggibilità delle donne che, come gli uomini, avessero compiuto, il giorno delle elezioni, 25 anni di età.
La prima applicazione delle nuove norme si ebbe con le elezioni amministrative della primavera del 1946. In diverse domeniche, dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si votò per le amministrazioni di 5722 comuni. Fu il primo voto dopo la caduta del fascismo. Votarono l’83 % degli uomini e l’81 % delle donne aventi diritto. Fu una prova generale rispetto alla novità, di ben maggiore rilievo, delle votazioni politiche del 2-3 giugno 1946, le quali determinarono la nascita della Repubblica. E’ con riferimento a queste ultime elezioni che, perciò, si è soliti parlare di “primo voto” delle donne.
Nelle elezioni politiche furono consegnate ai votanti due schede: una relativa al referendum sul mantenimento della Monarchia ovvero per la scelta della Repubblica, l’altra per eleggere i componenti della Assemblea costituente, avente il compito di redigere la nuova Costituzione dello Stato, destinata a sostituire il vecchio Statuto Albertino del 1848, che non era stato idoneo ad impedire l’avvento del regime fascista e la fine della democrazia liberale.
Sia per la novità assoluta del voto politico, sia per l’importanza evidente della scelta referendaria, le donne si accostarono al voto con enorme emozione. Nel menzionato tema che, questo anno, il Ministero ha dato per l’esame di maturità sono riportati i ricordi di quella votazione espressi da due scrittrici (Alba De Cespedes ed Anna Banti)[9]. Mi sembra ancora più significativa la testimonianza di una elettrice comune (Anna Maria Marucelli), in una lettera scritta a Roma il 3 giugno 1946, dalla quale si desume anche l’entusiasmo con cui tutti andarono a votare: Ieri è stato un grande giorno per l’Italia. Ti confesso che quando ho avuto le schede in mano il mio cuore ha accelerato i battiti e la mia mano non era più tanto ferma. Sapevo che il mio voto insieme a quello di tanti altri avrebbe deciso le sorti del paese. Speriamo che Iddio ci abbia ispirati per il meglio. Le cose sono andate abbastanza bene per quanto difettasse l’organizzazione. Io ho fatto presto: ¾ d’ora appena ma la mamma è dovuta tornare ben 3 volte, ed alla 3ª ha fatto una fila di 2 ore e Cesare pure[10].
2.- Il significato del suffragio femminile.
Il voto delle donne segnò il conseguimento di una aspirazione di vecchia data che in Italia non si espresse con modalità di protesta eclatanti come quelle del movimento suffragista sorto in Inghilterra (le cui aderenti furono denominate, con tono ironico o scherzoso, suffragette[11]), ma che pure si manifestò, chiaramente ed insistentemente, sin dai numerosi scritti di Anna Maria Mozzoni[12], seguace di Mazzini.
Il primo disegno di legge per l’estensione del voto politico alle donne fu presentato nel 1867 da un uomo (Salvatore Morelli), che, però, era del tutto isolato nell’ambiente parlamentare e veniva anche sbeffeggiato per il suo collegamento al femminismo europeo: “ogni volta che prendeva la parola in aula era accolto da risatine”[13].
Una petizione al Parlamento redatta dalla Mozzoni fu presentata, nel marzo 1906, dal Comitato Pro Suffragio Femminile[14]. Tra coloro che la sottoscrissero vi fu la nota pedagogista Maria Montessori. Nello stesso periodo non poche donne, in diverse regioni, chiesero l’iscrizione nelle liste elettorali. Questa richiesta sfociò in controversie giudiziarie che si conclusero con sentenze contrarie alle donne, ad esclusione di quella emanata il 25 luglio 1906 dalla Corte di appello di Ancona e redatta dal famoso giurista Lodovico Mortara, che ritenne legittima tale iscrizione (chiesta, nel caso di specie, da dieci donne). Ma la sentenza fu subito annullata dalla Corte di Cassazione[15].
Del voto alle donne si discusse molto in Parlamento nel 1912, quando fu approvato il disegno di legge sul suffragio universale maschile, ma le donne continuarono ad essere escluse da ogni tipo di votazione. Dopo la guerra, nel 1919, la Camera votò l’estensione dell’elettorato a “tutti i cittadini di ambo i sessi”, ma la proposta non potè essere esaminata dal Senato per la fine anticipata della legislatura.
Si pervenne finanche alla legge del 22 novembre 1925 n.2125, che ammetteva le donne a votare, ma nelle sole elezioni amministrative[16]. Questa legge, però, non ebbe alcun effetto perché il 4 febbraio 1926 fu approvata la legge che aboliva le amministrazioni locali elettive, con la sostituzione del podestà al sindaco.
Caduto il regime fascista, nel 1944 riprese la mobilitazione femminile per il suffragio elettorale completo, sulla cui richiesta concordarono tutte le rappresentanti femminili dei sei partiti aderenti al Comitato di liberazione nazionale[17]. Argomento nuovo a fondamento della battaglia delle donne fu costituito dal ruolo di rilievo che l’elemento femminile aveva esercitato nella lotta partigiana e nella guerra di liberazione[18]. Va, però, detto che ostacoli alla concessione del voto alle donne provenivano dagli stessi partiti, per effetto di tradizionali remore culturali ed anche per il timore (presente soprattutto nei partiti di sinistra) degli effetti negativi della estensione del voto ad un elettorato ritenuto per lo più di orientamento conservatore[19]. Ma, come si è detto, De Gasperi e Togliatti, con il decreto del 1° febbraio 1945, superarono decisamente e rapidamente ogni ostacolo e titubanza[20], in coincidenza, peraltro, con il preannunziato inizio della menzionata “settimana per il voto alle donne”[21].
La votazione del 2-3 giugno 1946 dimostrò la maturità democratica dell’elettorato femminile. La percentuale delle votanti, rispetto alle aventi diritto, fu dell’89%, sostanzialmente non diversa dalla corrispondente percentuale degli uomini (89,2 %)[22]. Nel sud e nelle isole la prima percentuale fu, addirittura, superiore alla seconda[23]. Le donne dimostrarono che la loro inclusione nel corpo elettorale e la parificazione, per questo aspetto, agli uomini erano pienamente giustificate. Appropriatamente la menzionata mostra in corso presso la Camera dei deputati è contrassegnata dal titolo: “1946. L’anno della svolta”. E svolta fu per le contemporanee novità della nascita della Repubblica, dell’avvio dei lavori per la nuova Costituzione dello Stato, per il primo voto delle donne.
Si comprende così l’importanza che la votazione del 2 giugno ebbe per la successiva evoluzione della questione femminile e della parità di genere, a partire dalla attività della Assemblea costituente e dalle decisioni ivi prese sul contenuto della legge fondamentale della Repubblica.
3.- Le conseguenze del voto sui lavori della Assemblea costituente.
In esito all’elezione dei componenti della Assemblea costituente – che si tenne unitamente al referendum sulla forma dello Stato – risultarono elette 21 donne su 556 membri. Il numero delle donne è molto basso (3,6 %). Esso si deve, soprattutto, al numero molto limitato delle candidate: soltanto 226 (molto meno del 10 % del totale). Le elette furono nove democristiane, nove comuniste, due socialiste ed una dell’Uomo qualunque.
Il numero limitato delle donne non impedì a quella che la stampa chiamò la “piccola pattuglia femminile”[24] di avere un effetto incisivo sulla nuova Costituzione, sia per la capacità delle costituenti[25], sia soprattutto perché esse svolsero, di regola, una attività concorde, a prescindere dalla loro diversa collocazione partitica, per l’introduzione di disposizioni costituzionali ispirate al principio della uguaglianza di genere. Va tenuto conto dell’associazionismo femminile su cui le costituenti appoggiarono la loro azione. In particolare, la comunista Maria Maddalena Rossi presiedeva l’Unione donne italiane e la democristiana Maria Federici era la presidente del Centro italiano femminile[26].
Cinque donne fecero parte della Commissione che redasse il progetto di Costituzione (c.d. Commissione dei 75), che fu successivamente esaminato e votato dalla intera Assemblea. Di essa furono componenti, sin dall’inizio, la democristiana Maria Federici, le comuniste Nilde Iotti e Teresa Noce, la socialista Lina Merlin; solo dal febbraio 1947, la democristiana Angela Gotelli. Due costituenti (Iotti e Gotelli) fecero parte della prima sottocommissione (diritti e doveri dei cittadini), tre (Federici, Merlin e Noce) della terza sottocommissione (diritti e doveri economico-sociali), nessuna della seconda sottocommissione (ordinamento costituzionale della Repubblica)[27].
Presentarono relazioni nelle sottocommissioni la Iotti (sulla famiglia) e ciascuna delle tre donne della terza sottocommissione sulle garanzie economico-sociali per la famiglia (tre relazioni di contenuto diverso, in coerenza con i diversi partiti delle relatrici)[28]. Nelle discussioni della Commissione dei 75 in sede plenaria le costituenti intervennero incisivamente anche sul tema dell’accesso delle donne alla magistratura (come subito si vedrà).
In Assemblea costituente le donne parteciparono soprattutto alla discussione sulle disposizioni della prima parte della Costituzione. Non è possibile qui esaminare i temi di questi interventi, tra i quali ebbero ampio spazio la famiglia e le condizioni lavorative della donna[29]. E’ sufficiente segnalare i risultati finali costituiti dalle disposizioni costituzionali che prevedono l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art.29), prescrivono di protegge(re) la maternità (art.31), tutelano la donna lavoratrice, che ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore e le cui condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione (art.37).
Tra le disposizioni della prima parte della Costituzione mi soffermo soltanto su quella dell’art.51, primo comma, della Costituzione, il cui testo è il seguente: Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge[30].
Nel progetto di Costituzione proposto alla Assemblea dalla Commissione dei 75, il testo (del corrispondente art.48) presentava due differenze rispetto a quello (vigente) dell’art.51: 1) dopo la parola “eguaglianza” si aggiungeva la limitazione, di forte significato sostanziale, “conformemente alle loro attitudini”; 2) nella parte finale del comma, anziché “secondo i requisiti”, si prevedeva, in modo molto più generico, “secondo le norme”. Maria Federici, a nome di altre dodici donne, propose con successo in Assemblea la soppressione del riferimento alle attitudini e la sostituzione alla parola norme (che avrebbe lasciato libero il legislatore ordinario di prevedere ogni limite all’accesso) della parola requisiti[31].
La questione si ripresentò quando l’Assemblea passò a discutere l’articolo sulla nomina dei magistrati[32]. Il progetto della Commissione prevedeva che “Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario”. La disposizione era ammissiva della nomina di magistrati donne, ma anche limitativa perché la consentiva soltanto “nei casi previsti” dalla legge. L’emendamento soppressivo di detta limitazione, proposto da Teresa Mattei e Maria Maddalena Rossi, fu bocciato dalla Assemblea, che invece soppresse l’intera disposizione qui trascritta. Maria Federici, insieme a diversi altri costituenti (tra cui quattro donne), non si dette per vinta, ma propose ed illustrò un ordine del giorno accolto dall’Assemblea, che ritenne applicabile sul punto la disposizione già approvata dell’art.51, e quindi la possibilità per le donne di accedere a tutti gli uffici pubblici, e perciò anche alla magistratura.
La previsione costituzionale dell’art. 51 ha poi costituito il fondamento della sentenza della Corte cost. n.33 del 18 maggio 1960, la quale dichiarò incostituzionale la disposizione (della legge n.1176 del 1919) che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che comportassero l’esercizio di diritti e potestà politiche. La Corte cost., in tale occasione, affermò che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso dagli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge.
Questa sentenza determinò la legge n.66 del 9 febbraio 1963, che ha ammesso le donne alla magistratura, ove esse sono entrate a partire dall’aprile 1965 (nel primo concorso le donne furono appena otto)[33]. Oggi il numero delle donne che fanno parte della magistratura ordinaria (giudici e pubblici ministeri) ha superato quello degli uomini[34].
Il principio fondamentale della Costituzione – di cui l’art.51 è specificazione – è quello di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge “senza distinzione di sesso” (art.3, primo comma). E’ essenziale questa ultima precisazione, perché l’eguaglianza davanti alla legge era già affermata, ma in modo generico e senza alcun riferimento al sesso, dallo Statuto Albertino (art.24). Sulla introduzione nell’art.3 della espressa previsione della irrilevanza della distinzione di sesso vi è un curioso dettaglio che merita di essere segnalato agli studiosi della storia della nostra Costituzione.
Nella autobiografia (edita postuma) di Lina Merlin[35], l’autrice attribuisce tale previsione ad un proprio emendamento all’art.3 (che, nel progetto di Costituzione presentato alla Assemblea, era l’art.7), “in quanto era stata proposta la formula Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di razza, di lingua, di religione, etc, etc”[36]. Era quindi omessa la menzione, prima della razza, del sesso che oggi si legge nell’art.3. La presentazione dell’emendamento poi approvato viene ricordata da più voci e ne è giustamente sottolineata l’importanza[37].
Sennonché, dell’emendamento indicato dalla Merlin, non ho trovato traccia nei lavori della Costituente[38]. Il progetto di Costituzione approvato dalla Commissione dei 75 conteneva già la precisazione “senza distinzione di sesso”[39], e su di essa non fu presentato alcun emendamento in Assemblea, che approvò l’articolo nella seduta pomeridiana del 24 marzo 1947[40]. Le stesse quattro parole erano già presenti anche nella formulazione iniziale dell’articolo proposta dai relatori La Pira e Basso nel corso dei lavori della prima sottocommissione della Commissione dei 75[41]. Sulle stesse parole non risulta esservi stato alcun emendamento[42], né durante le riunioni della prima sottocommissione[43], né nelle sedute plenarie della Commissione dei 75. Non resta che ipotizzare un intervento della Merlin antecedente al progetto iniziale dell’attuale art.3, redatto dai due relatori. Ma non sembra probabile che questo intervento abbia potuto esplicarsi attraverso un emendamento formale ad un testo che – come scrive la Merlin – ometteva il riferimento alla diversità di sesso (omissione che, invece, non si rinviene già nella iniziale proposta della disposizione).
Comunque, ci sia stato o meno un apporto femminile nella formulazione dell’art.3 Cost., è certo il contributo di rilievo delle pochissime costituenti al testo dell’art.51 e, specificamente, vi fu una loro particolare insistenza sulla ammissione delle donne alla magistratura, con una sorprendente percezione della importanza che questa istituzione avrebbe avuto nella attuazione della Costituzione e nella realizzazione, almeno parziale, delle tante speranze che ne accompagnarono l’approvazione.
Può allora condividersi, in linea generale e al di là dei limitati riferimenti qui fatti, il giudizio retrospettivo dato da Maria Federici secondo cui, se non ci fosse stato il gruppo di donne alla Costituente, “la donna non avrebbe nella Costituzione il posto che di fatto vi ha”[44]. Forse queste donne meriterebbero di essere conosciute meglio ed anche apprezzate nei loro valori e nelle attività svolte durante i lavori per l’elaborazione della Costituzione[45]. Le sole costituenti che hanno acquisito notorietà sono Nilde Iotti e Lina Merlin, ma per l’attività politica da loro svolta in epoca successiva alla Costituzione.
Merita, perciò, pieno apprezzamento l’iniziativa della Presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini che, come si è detto, ha voluto una permanente Sala delle donne, in cui vi è la fotografia delle 21 costituenti, che possono ben qualificarsi “madri della Costituzione”, da aggiungersi alla tradizionale considerazione dei “padri della Costituzione”.
4.- Le donne nelle istituzioni rappresentative.
Le disposizioni costituzionali sull’uguaglianza dei sessi hanno costituito l’inizio di un lungo percorso, ancora in svolgimento, verso la parità di genere. In questo iter complesso (per l’ampiezza dei settori coinvolti) e frastagliato (per le difficoltà che esso ha incontrato e ancora affronta) va segnalata, in particolare, l’azione essenziale della Corte costituzionale, che ha adeguato l’ordinamento legislativo alle norme costituzionali, anticipando in più casi l’intervento del legislatore. Questo percorso concerne quasi tutti i settori dell’ordinamento giuridico e non può, per la sua ampiezza, essere esaminato in questo scritto.
Qui vogliamo fare cenno soltanto ad un tema specificamente collegato all’attuale anniversario: quello dell’ingresso delle donne nelle istituzioni rappresentative. Nel giugno di 70 anni fa 21 donne entrarono, per prime, nel Parlamento italiano, “in rappresentanza della Nazione”, come si esprime l’art.67 Cost. (e già l’art.41 dello Statuto). Nel 1946 – è stato recentemente ricordato[46] – furono anche elette dieci sindache (di comuni non grandi), cosa che non sarebbe stato possibile se non si fosse attribuita alle donne la capacità di essere elette nelle votazioni amministrative.
Quale seguito ha avuto la presenza femminile nelle istituzioni rappresentative in questo lungo periodo di tempo?
E’ noto che questa presenza è stata sempre molto limitata. Le difficoltà, di varia natura, sono state molteplici. Esse hanno evidenziato l’insufficienza di una azione politica e legislativa diretta semplicemente a superare le discriminazioni di genere (dirette ed indirette) e la conseguente necessità di svolgere azioni positive al fine di pervenire alla parità di chances tra i due sessi. Le azioni positive, in linea generale, trovano il loro fondamento costituzionale nel principio di uguaglianza sostanziale che, nel capoverso dell’art.3 Cost., fa seguito al principio di uguaglianza formale affermato dal primo comma e costituente il tradizionale sostegno della non discriminazione tra i sessi.
Si è allora perseguito un indirizzo di fondo inteso a promuovere la parità di accesso alle cariche elettive o, come anche si dice, le pari opportunità. Ciò ha comportato modifiche integrative della Costituzione e, in particolare, dell’art.51, primo comma, che, come abbiamo visto, pone il principio dell’uguaglianza dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. A tale uguaglianza si è aggiunta la prescrizione, secondo cui A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini (così la legge costituzionale 30 maggio 2003 n.1[47]).
La modifica dell’art.51 della Costituzione era stata preceduta da altre due leggi costituzionali di analogo contenuto relative agli ordinamenti regionali. La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3 ha inserito nel testo riscritto dell’art.117 Cost. un nuovo comma, secondo cui Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini nelle cariche elettive. Alle cinque regioni speciali si riferisce la legge costituzionale n.2 del 31 gennaio 2001, la quale impone alle relative leggi di “promuove(re) condizioni di parità di accesso alle consultazioni elettorali”, “al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi”.
Solo in epoca recente il nuovo indirizzo costituzionale ha dato risultati concreti. La presenza femminile nell’attuale Parlamento nazionale è del 30 % rispetto al totale dei componenti[48]. Minore è, invece, la percentuale delle sindache nei 7.998 comuni d’Italia: alla data del 1° luglio 2016, esse erano n.1116, onde amministravano soltanto il 13,94 % dei comuni (ed il 15,97 % della popolazione)[49].
Con enorme ritardo una donna ha occupato posti rappresentativi negli organi costituzionali. La prima donna Presidente della Camera dei deputati (Nilde Iotti) è stata eletta il 20 giugno 1979. La prima donna ministra (Tina Anselmi) è stata nominata il 30 luglio 1976[50]. La prima Presidente di Giunta regionale (Anna Nenna D’Antonio[51]) è stata eletta il 2 dicembre 1980.
Se va sottolineato che la percentuale delle ministre nell’attuale Governo è del 38 % [52], non si possono ignorare i tre specchi che, con ammirevole fantasia, sono stati collocati nella ora inaugurata Sala delle donne. Essi stanno ad indicare le tre cariche rappresentative che non sono state finora ricoperte da alcuna donna: Presidente della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente del Consiglio dei Ministri. La frase apposta vicino a ciascuno dei tre specchi (potresti essere tu la prima) è di augurio e di incentivo a tutte le donne che in essi avranno modo di guardarsi.
5.-Considerazioni conclusive.
Con una valutazione globale dei 70 anni trascorsi dal 1946, anno della svolta, si può dire che la situazione della donna è profondamente cambiata sia nella società italiana, sia nelle istituzioni pubbliche. Si sono avuti enormi miglioramenti[53], ma si è ancora lontani dall’avere raggiunto, nella realtà concreta, il traguardo costituzionale della piena uguaglianza di genere[54].
Si è specificamente indicato il deficit di presenza femminile negli organi costituzionali di natura rappresentativa. Ma se si volge lo sguardo agli organi giudiziari, a cui, come si è visto, si era dedicato il particolare impegno delle costituenti, si constata che questo deficit si presenta, per qualche aspetto, ancora maggiore. Ed invero nessuna donna ha finora rivestito le cariche di presidente della Corte costituzionale[55] ovvero di una delle “supreme magistrature ordinaria ed amministrativa” (così definite dall’art.135 Cost.)[56]. Indubbiamente sussistono ragioni temporali dipendenti dal ritardo quasi ventennale con il quale, come si è detto, le donne sono state ammesse ai concorsi per dette magistrature, onde soltanto un numero limitato di donne ha finora raggiunto l’anzianità necessaria per concorrere alle posizioni di vertice. Ma la limitata presenza femminile non cessa di essere un fenomeno reale e di indicare il cammino che ancora deve essere percorso e che è davanti alle generazioni future, come è figurativamente prospettato dalla installazione nella Sala delle donne degli specchi, che, nella totalità delle istituzioni pubbliche, sono ben più dei tre in essa collocati.
* Testo della conferenza tenuta a Centola, il 6 agosto 2016, nel Convegno organizzato dalla Associazione Progetto Centola, in collaborazione con il Comune di Centola, sul tema: “2 giugno 1946, le donne, con il loro voto, decisero la storia dell’Italia”.
[1] In coincidenza con l’inaugurazione della “Sala delle donne” la Camera dei deputati ha pubblicato il volume Le Prime Italiane nelle Istituzioni.
[2] Qualche indicazione non esaustiva: Russia 1917, Austria 1918, Polonia 1918, Irlanda 1918-1922, Germania 1919, Olanda 1919, Lussemburgo 1919, Ungheria 1919, Cecoslovacchia 1920, Danimarca 1920, Svezia 1921, Gran Bretagna 1928. Prima ancora del conflitto mondiale la Spagna aveva concesso il voto alle donne nel 1907.
[3] Tra gli altri Stati: Bulgaria 1945, Albania 1945, Iugoslavia 1945, Francia 1946, Romania 1946, Malta 1947, Belgio 1948, Grecia 1952.
[4] Per esempio: Svizzera 1971, Portogallo 1974. Tutte le indicazioni sulle date di inizio del suffragio femminile nei diversi Stati sono tratte dalla voce di Fulco Lanchester, Voto: diritto di (dir. pubbl.), in Enc. dir., Giuffré, vol. XLVI, 1993, p.1115.
[5] Chiara Tripodina, 1946-2016. La “questione elettorale femminile”: dal voto delle donne al voto alle donne (una luce si intravede), in Rivista italiana dei costituzionalisti, n.3/2016, nt.26.
[6] V. il testo del decreto in Donne alle urne. La conquista del voto. Documenti 1864-1946, a cura di Marina d’Amelia, Biblink editori, 2006, p.137.
[7] Il diritto di essere elettrici (elettorato attivo) è diverso da quello di essere elette (elettorato passivo). In Nuova Zelanda, per esempio, le donne, come si è detto, ebbero il diritto di voto già nel 1893, ma dovettero attendere il 1919 per ottenere anche l’elettorato passivo.
[8] V. Giulia Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, Biblink editori, 2006, p.209 ss.
[9] La traccia del tema, in cui sono trascritti i ricordi delle due scrittrici, può leggersi sul sito del Ministero della istruzione. Detti ricordi sono riportati da Patrizia Gabrielli, 2 giugno 1946: una giornata memorabile, saggio pubblicato, oltre che nella rivista indicata nella traccia del tema, anche in un volume della stessa Gabrielli: Il 1946, le donne, la Repubblica, Donzelli editore, 2009, p.149 ss..
[10] La lettera (con la risposta di Franco Leo, all’epoca prigioniero) è riportata come esergo di un volume pubblicato recentemente dalla citata docente universitaria P. Gabrielli, Il primo voto. Elettrici ed elette, Castelvecchi, 2016.
[11] Può richiamarsi il recente, omonimo film, ispirato alle azioni di protesta (anche con violenze sulle cose) compiute in Inghilterra agli inizi del Novecento dalle aderenti al movimento femminista, guidato da Emmeline Pankhurst, che reclamava il diritto di voto alle donne.
[12] E’ del 1864 il volume della Mozzoni, La donna e i suoi rapporti sociali. Qualche pagina della Mozzoni è riportata in Donne alle urne cit., p.17-25.
[13] Così si è espressa la Presidente Laura Boldrini, nell’intervista concessa ad Aldo Cazzullo e pubblicata dal Corriere della sera del 10 luglio 2016, p.21.
[14] Una precedente petizione al Parlamento era stata presentata sempre dalla Mozzoni nel 1877.
[15] La sentenza fu emanata nel dicembre dello stesso anno 1906. Della Cassazione il Mortara diventerà poi Primo presidente nel lungo periodo 1915-1923.
[16] La legge fu approvata con l’opposizione dei deputati fascisti.
[17] Partito liberale, Democrazia cristiana, Democrazia del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, Partito comunista. Rilevante fu l’attività, soprattutto, dell’Unione delle Donne Italiane (UDI), costituita, nel settembre 1944, su impulso del Partito comunista, e del Centro Italiano Femminile (CIF), costituito, nel successivo mese di ottobre, dalle organizzazioni femminili di ispirazione cattolica. Tutti i gruppi femminili, riunitisi a Roma il 25 ottobre 1944 su iniziativa dell’UDI, decisero l’organizzazione della “Settimana nazionale per il voto alle donne”, fissata per la prima settimana del febbraio 1945.
[18] V. P. Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, cit., p.43 ss.
[19] V. l’opera citata nella nota precedente, p. 65 ss.
[20] E’ significativo, per intendere il clima generale dell’epoca in cui il Governo approvò il decreto concessivo del voto alle donne, il contenuto dell’articolo di Mario Borsa, direttore liberale del Corriere d’informazione del 24 giugno 1945 (subentrato al Corriere della sera, che aveva sospeso le pubblicazioni il precedente 26 aprile), il quale deprecava che si fosse “deciso di dare il voto alle donne senza che questa decisione fosse invocata da un serio, largo, meditato, consapevole movimento femminista” (l’articolo è stato ripubblicato nel recente volume di D. Messina, 2 giugno 1946. La battaglia per la Repubblica, edito dal Corriere della sera, 2016, p.182). Il giornalista Borsa metteva a raffronto la concessione del suffragio femminile in Italia con l’uguale risultato ottenuto dalle donne in Inghilterra nel 1928, dopo una “battaglia, durata quasi venti anni”. Ma tale giudizio, da un lato, ignorava il più lungo tempo trascorso per pervenire al suffragio femminile in Italia e, dall’altro, sottovalutava le lotte portate avanti dalle associazioni femminili italiane, anche se in modo non violento, a differenza delle suffragette inglesi (sulle quali v., ampiamente, P. Gabrielli, op. ult. cit., cap. II e III.
[21] Il decreto di “estensione alle donne del diritto di voto” fu approvato dal Consiglio dei Ministri del 30 gennaio 1945.
[22] In totale le donne votanti furono 12.998.131, gli uomini votanti 11.949.056.
[23] Nel sud, 88,2 % di donne, 86,7 % di uomini; in Sicilia, rispettivamente, 86,2 e 84,8; in Sardegna, 87,3 e 84,4. Cfr. G. Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia cit., p.270.
[24] Così P. Gabrielli, Il primo voto cit., p.9.
[25] Quattordici delle 21 Costituenti erano laureate, altre operaie ed impiegate e quindi conoscitrici dei problemi sociali e del lavoro.
[26] Secondo l’intervento della Rossi nella seduta dell’Assemblea costituente del 21 aprile 1947 le due associazioni contavano “unite, circa due milioni di aderenti e la loro influenza nel Paese è ben più grande”.
[27] E’ interessante notare che proprio la materia trattata dalla seconda sottocommissione, che poi ha costituito la seconda parte della Costituzione vigente, è quella la cui esigenza di riforma si è avvertita ampiamente, con tentativi di modifica che si prolungano inutilmente da alcuni decenni.
[28] Le relazioni indicate nel testo possono leggersi in Le donne della Costituente, a cura di M.T.A. Morelli, Laterza, 2007, p.5 ss. e p. 14 ss.. Esse sono state ripubblicate nel citato volume della Camera dei deputati Le Prime Italiane nelle Istituzioni, p.115 ss.
[29] Una documentazione molto ampia trovasi in Le donne della Costituente cit..
[30] Nel 2003, come si vedrà, è stata apportata una aggiunta alla formulazione qui trascritta.
[31] Seduta dell’Assemblea costituente del 22 maggio 1947, in cui la Federici osservò: “poiché le attitudini non si provano se non col lavoro, escludere le donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli”.
[32] Attuale art.106 della Costituzione (art.98 del Progetto).
[33] Per approfondimenti sulla presenza delle donne nella magistratura ordinaria v. Quaderni del CSM, 2014, n.162, ove sono pubblicati gli atti del convegno (svoltosi il 4 luglio 2013 presso il CSM) sul tema: “I primi 50 anni delle donne in magistratura: quali prospettive per il futuro”.
[34] Alla data del 27 luglio 2016, su 9215 magistrati in servizio, le donne erano 4719 e gli uomini erano 4496 (rispettivamente, il 51 ed il 49 %).
[35] Lina Merlin, La mia vita, a cura di Elena Marinucci, Giunti, 1989 (la Merlin è morta il 10 agosto 1979). L’autobiografia reca la data del 14 marzo 1963 (p.119 del volume), l’anno in cui la costituente e poi parlamentare socialista (in tre legislature) decise di ritirarsi dalla vita politica, anche a seguito delle forti polemiche determinate dalla approvazione della legge (da lei proposta e fortemente voluta) 20 febbraio 1958 n.75, sulla abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui (chiusura delle case di prostituzione).
[36] V. l’opera citata nella nota precedente, p.93-84. La Merlin non precisa in quale fase dei lavori della Costituzione l’emendamento fu da lei presentato ed approvato.
[37] Di recente, per esempio, nel volume collettaneo Donne della Repubblica, Il Mulino, 2016, Claudia Galimberti osserva: con sole quattro parole (“senza distinzione di sesso”) lei (la Merlin) cambia la vita delle donne e la storia dei loro diritti (p.119). La frase della Galimberti viene anche ripresa da Dacia Maraini nella Introduzione allo stesso volume, p.9. Analogamente la recensione del detto volume scritta da Eliana Di Caro, Donne costituenti e diritti, in Il Sole 24 Ore, domenicale del 12 giugno 2016, p.37.
[38] Si fa riferimento a La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Camera dei deputati, Roma, 1970 (8 volumi).
[39] Art.7 del progetto (poi divenuto art.3 della Costituzione), primo comma.
[40] La Costituzione della Repubblica cit., vol.1, p.602.
[41] La proposta fu presentata dai due relatori nella seduta della sottocommissione dell’11 settembre 1946 e costituiva il contenuto dell’art.2, del seguente tenore: Gli uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di sesso, di razza, di classe, di opinione politica e di religione, sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad uguale trattamento sociale (La Costituzione della Repubblica cit., vol. VI, p.333).
[42] Va tenuto presente, peraltro, che dei lavori della Commissione dei 75 (e delle relative sottocommissione) fu redatto soltanto un resoconto sommario, mentre il resoconto stenografico si ha solo per le sedute della Assemblea.
[43] La Merlin, peraltro, faceva parte, come si è detto, della terza sottocommissione, e non della prima.
[44] Maria Federici, L’evoluzione socio-giuridica della donna alla Costituente, in AA. VV., Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. II, Vallecchi, 1969.
[45] Al riguardo è stato già citato il volume Le donne della Costituente, che contiene i profili biografici delle 21 costituenti. Questi profili sono stati ora ripubblicati in Le Prime Italiane nelle Istituzioni, cit.. In un altro recente volume (collettaneo) Donne della Repubblica, Il Mulino, 2016, sono illustrate le figure delle costituenti Teresa Noce, Teresa Mattei, Nilde Iotti e Lina Merlin.
[46] L’innovativo ricordo di queste prime sindache è avvenuto con l’apertura della menzionata Sala delle donne nella Camera dei deputati, ove sono state collocate le loro fotografie. Per i nomi delle dieci sindache ed i rispettivi comuni v. Le Prime Italiane nelle Istituzioni, cit., p.129 ss., ove sono scritti anche brevi cenni biografici per ciascuna di loro.
[47] La legge costituzionale si è resa necessaria a seguito della sentenza della Corte cost. n.422 del 12 settembre 1995, che aveva dichiarato l’incostituzionalità di disposizioni legislative che imponevano nelle liste delle candidature quote minime dei componenti di ciascun sesso. Successivamente la Corte ha mutato orientamento con la sentenza n.49 del 13 febbraio 2003. Sulla vicenda v. Giuditta Brunelli, Donne e politica. Quote rosa? Perché le donne in politica sono ancora così poche, Il Mulino, 2006, p.47 ss.. Marilisa D’Amico-Alessandro Concaro, Donne e istituzioni politiche, Giappichelli, 2006, 29 ss.. Recentemente v. Marta Cartabia, Il principio di pari opportunità nella giurisprudenza costituzionale, in Quaderni del CSM cit., p.53 ss. e Chiara Tripodina, 1946-2016. La “questione elettorale femminile” cit., che, nel § 4 (p.14-29), traccia un quadro completo del “diritto all’elettorato passivo femminile dal secondo dopoguerra ad oggi”.
[48] La media dei Paesi europei è del 37 %.
[49] La percentuale era più bassa se riferita ai soli comuni capoluoghi di provincia: l’8,25 % (8 comuni sul totale di 97). Nei comuni capoluoghi di regione le sindache erano 3 su 20 (15,00 %).
[50] Tina Anselmi è stata nominata Ministra del lavoro e della previdenza sociale. In tale carica, dopo pochi mesi, il 21 gennaio 1977, presentò al Parlamento, in applicazione dell’art.37 Cost., il disegno di legge governativo sulla “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, divenuto la legge 9 dicembre 1977 n.903. Alla Anselmi come Ministro è stato recentemente dedicato un francobollo, iniziativa rara per una persona vivente (Eliana Di Caro, in Il Sole-24 ore, domenicale del 22 luglio 2016, p.29).
[51] La regione di cui è stata presidente la D’Antonio è l’Abruzzo. Queste notizie, nonché cenni biografici delle tre donne indicate nel testo, possono leggersi in Le Prime italiane nelle Istituzioni, cit.
[52] La percentuale è superiore alla media dei Paesi dell’Unione europea, che è del 33 %.
[53] I miglioramenti avutisi, indubbi sul piano della posizione giuridica della donna (nella sfera privata ed in quella pubblica), non possono, però, ignorare l’elevata frequenza dei c.d. femminicidi, e cioè degli omicidi di donne dovuti a motivi di genere. Nel Corriere della sera del 4 agosto 2016 (p.17) si afferma che “negli ultimi dieci anni le donne ammazzate nel nostro Paese sono state 1.740: di queste 1.251 in famiglia (846 all’interno della coppia)”. Tale fenomeno, quali che siano le sue ragioni profonde, dimostra che la parità di genere, nella mentalità degli uomini italiani, è ben lungi dall’essere raggiunta.
[54] Il percorso verso tale traguardo è bene espresso dal titolo di uno scritto di S. Gambino, Verso la democrazia paritaria….cavalcando le lumache, in www.asrid-online.it, 2005.
[55] Scarsa è stata sempre la presenza femminile nella Corte costituzionale, essendosi essa limitata in passato soltanto ad una dei 15 componenti (e solo a partire dal 4 novembre 1998, in cui il Presidente della Repubblica Scalfaro nominò la prima componente donna, Fernanda Contri). Solo recentemente (dal novembre 2014), tale presenza ha raggiunto il numero attuale di tre componenti.
[56] Ci si riferisce alla Corte di cassazione, al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti, ai cui vertici non è stata mai nominata una donna. Anche nelle cariche direttive degli uffici della magistratura ordinaria si rileva tuttora una presenza sensibilmente minore delle donne: alla data del 27 luglio 2016, nei posti direttivi degli uffici giudicanti la proporzione era del 72 % di uomini e del 28 % di donne; nei posti direttivi degli uffici di pubblico ministero tale proporzione era, rispettivamente, dell’84 e del 16 %. La tendenza è, però, verso una lenta diminuzione (soprattutto negli uffici giudicanti) della ampia forbice, dovuta in rilevante misura al ritardo con cui le donne sono state ammesse nella magistratura.